«Eh? Oh, probabilmente non riusciremo a metterci in contatto con Blake, e Palmer pensa che non avremo bisogno di lui. Potrebbe dire all'infermiera Dodd di rintracciare la Meyers... le altre, oramai, sono uscite con i loro ragazzi, se non le conosco male, e due infermiere dovrebbero bastare, con Jones. Tanto, loro sono più efficienti di tutti gli altri». Isotopo R? Ferrel ricordava il nome, ma niente altro. Qualcosa che aveva detto una volta un ingegnere... ma non ricordava a che proposito... oppure l'aveva nominato Hokusai? Guardò Jenkins uscire e, d'impulso, ritornò nel suo ufficio. Da li poteva telefonare in ragionevole tranquillità.

«Mi dia Matsuura Hokusai». Rimase in piedi, tamburellando impaziente sul piano della scrivania fino a quando lo schermo s'illuminò e apparve il piccolo giapponese. «Hoke, sa cosa stavano sfornando al 3 e al 4?»

Lo scienziato annui lentamente; il volto grinzoso era inespressivo quanto il suo inglese privo d'accento. «Ssì, loro fa I-713 per i curculionidi. Perché domanda?»

«Niente: solo una curiosità. Ho sentito parlare di un Isotopo R e mi chiedevo se c'era qualche nesso. Sembra che abbiano avuto un piccolo incidente, e voglio essere preparato ai risultati».

Per una frazione di secondo, le pesanti palpebre di Hokusai parvero sollevarsi, ma la voce rimase neutra, solo un pò più affrettata. «Nessun nesso, dottor Ferrel, loro non fa Issotopo E, le assicuro molto. Meglio che lei dimentica Issotopo R. Molto sspiacente, dottor Ferrel, io ora devo vedere incidente. Grazie per telefonata. Addio». Lo schermo si oscurò di nuovo, e si oscurò anche la mente di Ferrel.

Jenkins era sulla soglia, ma non aveva sentito nulla, o non aveva capito. «L'infermiera Meyers sta tornando qui.» disse. «Devo preparare le iniezioni di curaro?»

«Uh... potrebbe essere una buona idea». Ferrel non intendeva lasciarsi sorprendere di nuovo, quali che fossero le implicazioni di quelle parole. Il curaro, uno dei veleni più potenti, noto da secoli agli indigeni primitivi dell'America Meridionale, e solo recentemente prodotto per sintesi dalla chimica moderna, era l'ultima risorsa nei casi di lesioni da radiazioni assolutamente incontrollabili. Sebbene l'infermeria lo tenesse per simili casi d'emergenza, in tutti quegli anni Doc l'aveva usato soltanto due volte: e non erano state esperienze piacevoli. Jenkins era totalmente terrorizzato o troppo zelante... a meno che sapesse qualcosa che non avrebbe dovuto sapere.

«A quanto pare impiegano parecchio a portare qui gli uomini... Non può essere una cosa grave, Jenkins, altrimenti si sbrigherebbero».

«Può darsi». Jenkins continuò i preparativi, sciogliendo il plasma nell'acqua distillata e deaerata senza alzare la testa. «Ecco la sirena dell'ambulanza. Sarà meglio che lei si lavi, mentre io mi occupo dei pazienti».

Doc ascoltò il suono che giungeva dall'esterno come un sibilo vago e sorrise lievemente. «Deve esserci Beel, al volante. È l'unico uomo tanto stupido da mettere in funzione la sirena quando i viali sono deserti. Comunque, se ascolta bene, sta andando. Impiegherà almeno cinque minuti prima di tornare». Ma andò in bagno, fece scorrere l'acqua calda e cominciò a lavarsi energicamente con il sapone antisettico.

Accidenti a Jenkins! Era li a preparare tutto prima di aver motivo di sospettare che ce ne fosse bisogno, e si stava dando da fare a modo suo, come se sapesse qualcosa di decisivo. Beh, forse era così. Era così, oppure era fuori di sé come una vecchia comare per la paura di tutto quello che aveva attinenza con le reazioni atomiche, e non sembrava che fosse quello il suo caso. Doc si sciacquò mentre Jenkins entrava, azionò il getto d'aria calda e si asciugò le braccia, poi premette la leva che fece apparire i guanti di gomma sui piccoli supporti. «Jenkins, cos'è questa storia dell'Isotopo R? Ne ho sentito parlare, non so dove... probabilmente da Hokusai. Ma non ricordo niente di preciso».

«Naturalmente... non c'è nulla di preciso. È questo il guaio». Il giovane medico si pulì sotto le unghie prima di alzare gli occhi; vide che Ferrel stava infilando il camice bianco da chirurgo uscito su una stampella e attese che avesse finito. «L'R è una delle grandi incognite della scienza atomica. È puramente teorico e finora non è stato prodotto... è impossibile, oppure non si può produrre in piccole quantità di controllo, non pericolose. Questo è il guaio, come ho detto; nessuno ne sa niente, a parte il fatto che, se può esistere, si trasformerà in tempo relativamente breve nell'Isotopo di Mahler. Ne ha sentito parlare?»

Doc ne aveva sentito parlare... due volte. La prima, quando Mahler e metà del suo laboratorio erano scomparsi... molto rumorosamente. Mahler stava producendo una quantità relativamente modesta del nuovo prodotto, destinato a servire come attivante per altre reazioni. In seguito, Maicewicz aveva ripetuto l'esperimento su scala ridotta, e quella volta soltanto due stanze e tre uomini s'erano disintegrati in particelle di polvere. Cinque o sei anni dopo, la teoria atomica era arrivata al punto che qualunque studente poteva scoprire perché quel prodotto apparentemente innocuo decideva di trasformarsi in elio puro ed energia all'incirca in un miliardesimo di secondo.

«In quanto tempo?»

«C'è una mezza dozzina di teorie, e neppure un'idea vera». Erano usciti dal bagno, e dovevano soltanto mettere le maschere. Jenkins urtò con il gomito un interruttore per accendere le lampade ultraviolette che dovevano sterilizzare l'intero reparto, poi si guardò intorno con aria interrogativa. «E le vibrazioni supersoniche?»

Ferrel le accese, premendo il pedale, e rabbrividì quando il ronzio armonico che faceva tremare le ossa indicò che erano entrate in funzione. Se non altro, non poteva lamentarsi dell'equipaggiamento. Dopo l'ultimo incidente, quando il Congresso dello Stato s'era fatto venire certe idee, li erano arrivati abbastanza aggeggi per attrezzare parecchi piccoli ospedali. Le vibrazioni supersoniche dovevano penetrare in tutti gli oggetti solidi della stanza, sterilizzando dove non poteva arrivare la luce ultravioletta. Una nota sibilante, in quelle armoniche, rammentò a Doc qualcosa che da qualche minuto gli ronzava in fondo alla mente.

«Non hanno attivato la sirena dell'allarme. Jenkins. Mi sembra che non l'avrebbero dimenticato, se si trattasse di una cosa seria».

Jenkins borbottò, con fare scettico ed eloquente: «Ho letto sul giornale, qualche giorno fa. che il Congresso stava pensando di trasferire tutti gli stabilimenti atomici — e questo significa la National, naturalmente — nel deserto di Mojave. A Palmer non farebbe piacere... Ecco di nuovo l'ambulanza».

 

Jones, il portantino, l'aveva sentita, e stava già spingendo la barella nella sala accettazione, sul retro. Mezzo minuto dopo. Beel entrò, con la parte staccabile dall'ambulanza. «Due», annunciò. «Ne arriveranno altri appena riusciranno a raggiungerli, Doc».

C'era una macchia di sangue sulla tela, e un esame più attento rilevò che proveniva da una vena jugulare recisa e bloccata da un piccolo spillo di sicurezza fissato ai lati della ferita con una serie di minuscole punture, intorno alle quali il sangue s'era raggrumato quanto bastava per arrestare l'emorragia.

Doc spense la vibrazione supersonica con un sospiro di sollievo e indicò la gola dell'uomo. «Perché non mi hanno chiamato sul posto».

«Diavolo, Doc, Palmer ha detto di portarglieli, e io glieli ho portati... non lo so. Ho visto che qualcuno aveva messo lo spillo a questo tale, e così hanno pensato che potesse aspettare. Qualcosa che non va?»

Ferrel fece una smorfia. «Con una vena jugulare tranciata, tutto ciò che può arrestare l'emorragia va benissimo, ortodosso o non ortodosso. Quanti ce ne sono, ancora, e cos'è successo?»

«Lo sa Iddio, Doc, Io mi limito a portarli, non faccio domande. Arrivederci!» Beel caricò la nuova barella sul carrello, la spinse fuori verso il piccolo trattore a due ruote che completava l'ambulanza. Ferrel concentrò la sua attenzione sulla vena jugulare, mentre la Dodd si assestava la maschera. Jones aveva spogliato i pazienti, li aveva rapidamente spennellati e li stava portando verso i tavoli operatori, al centro della sala.

«Plasma!» Un rapido esame non aveva rivelato a Doc nulla di più grave della jugulare recisa; si affrettò a fare l'iniezione. A quanto pareva, l'uomo aveva soltanto perduto i sensi per l'emorragia, e la respirazione e l'attività cardiaca ridiventarono più normali via via che il liquido tornava a riempire gli esausti vasi sanguigni. Medicò la ferita con un derivato del sulfanamide, come si faceva di solito, pulì e sterilizzò delicatamente i labbri, applicò con cura le pinze emostatiche, tolse lo spillo e cominciò a cucire con il piccolo, complicato ago a motore... uno dei pochi apparecchi che non destavano il suo interesse. Era sgorgata qualche altra goccia di sangue, ma non era niente di grave, e adesso la ferita era definitivamente chiusa. «Conservi lo spillo, infermiera Dodd. Andrà nella collezione. Questo è a posto. Come sta l'altro. Jenkins?»

Jenkins indicò la parte posteriore del collo dell'uomo, da cui sporgeva un minuscolo oggetto bluastro. «Un frammento d'acciaio, piantato nel midollo allungato. Non ha perso sangue, ma è morto nel momento in cui la scheggia l'ha toccato. Vuole che la estragga?»

«Non è necessario... potranno farlo quelli delle pompe funebri, se vogliono... Se questi due sono un campione, direi che si è trattato di un comune incidente sul lavoro, non collegato alle radiazioni».

«Arriveranno anche quelli. Doc». Era l'uomo dalla vena jugulare tranciata, che adesso aveva ripreso i sensi e sembrava normale, a parte il pallore. «Noi non eravamo nel capannone del convertitore. Ehi, ma sto bene... Che mi venga...»

Ferrel sorrise della sua espressione sbalordita. «Credeva di essere morto, eh? sicuro, sta bene, se non si agita. Una vena jugulare tranciata o ti ammazza subito o non ti dà motivi di preoccupazione. Basta che stia buono e lasci che l'infermiera l'addormenti, e non si ricorderà neppure di quel che le è successo».

«Signore Iddio! Tutta quella roba che volava dalla presa d'aria come una raffica di mitragliatrice. È solo un graffio, ho pensato; è poi Jake ha cominciato a gridare e a chiedere uno spillo. C'era sangue dappertutto... e adesso eccomi qui rimesso a nuovo».

«Uh-uh». La Dodd lo stava già spingendo verso una delle camere, con la faccia arcigna contratta in un'espressione quasi interrogativa al di sopra la maschera. «Il dottore ha detto di star buono, no? E allora!»

Appena la Dodd spari, Jenkins sedette, passandosi le mani sulla calotta: c'erano minuscole gocce di sudore dove gli occhiali e la maschera non gli coprivano completamente il viso. «'Tutta quella roba che volava dalla presa d'aria come una raffica di mitragliatrice'», ripeté sottovoce. «Dottor Ferrel, questi due erano fuori dal capannone del convertitore... sono rimasti feriti accidentalmente. Dentro...»

«Già». Anche Ferrel immaginava la scena, e non era piacevole. Fuori, roba che volava attraverso i condotti dell',aria; dentro... Lasciò il pensiero in sospeso, come aveva fatto Jenkins. «Chiamerò Blake. Probabilmente avremo bisogno di lui».

 

II.

 

«Mi passi la casa del dottor Blake... Maple 2337». disse rapidamente Ferrel al microfono. La centralinista lo guardò stordita per un secondo, incominciando e arrestando un gesto puramente automatico per inserire le spine. «Maple 2337. ho detto».

«Mi dispiace, dottor Ferrel, ma non posso darle l'esterno. Tutte le linee non funzionano». Dal centralino arrivava un ronzio costante, ma sul quadro niente indicava se proveniva dalle spie bianche dell'interno o da quelle rosse dell'esterno.

«Ma... è urgente, signorina. Devo mettermi in contatto con il dottor Blake!»

«Mi dispiace, dottor Ferrel. Tutte le linee esterne non funzionano». La centralinista fece per allungare la mano verso la spina ma Ferrel la fermò.

«Allora mi passi Palmer... e niente scherzi! Se la sua linea è occupata, l'interrompa e mi inserisca. Me ne assumo io la responsabilità».

«Sta bene». La centralinista fece scattare gli interruttori. «Mi scusi, una chiamata urgente da parte del dottor Ferrel. Resti in linea, poi la ricollego». Poi la faccia di Palmer apparve sullo schermo; e questa volta non faceva nulla per nascondere l'espressione preoccupata.

«Cosa c'è. Ferrel?»

«Voglio qui Blake... avrò bisogno di lui. La centralinista dice...»

«Già». Palmer annuì seccamente, interrompendolo. «Anch'io ho cercato di mettermi in contatto con lui, ma a casa sua non risponde nessuno. Sa dove potremmo trovarlo?»

«Può tentare al Bluebird o a qualche altro nightclub dei dintorni». Maledizione, perché doveva essere proprio la serata dell'anniversario di Blake? Era impossibile indovinare dove lo si poteva rintracciare, a quell'ora.

Palmer avera ripreso a parlare. «Ho già fatto chiamare tutti i nightclub e i ristoranti, ma non c'è. Adesso lo stiamo facendo cercare in tutti i cinema e i teatri... un momento... No, là non c'è, Ferrel. Secondo le ultime notizie, non si trova».

«Non sarebbe il caso di lanciare un appello alla radio?»

«Vorrei... vorrei farlo, Ferrel, ma non è possibile». Il direttore aveva esitato per una frazione di secondo, ma la sua risposta fu decisa. «Oh, a proposito, avvertiremo sua moglie che non tornerà a casa. Centralinista! Mi sente? Bene, mi colleghi di nuovo con il governatore!»

Era inutile discutere con uno schermo spento, pensò Doc. Se Palmer non voleva diffondere un appello radio, non voleva e basta, sebbene fosse stato fatto, in un'altra occasione. «Tutte le linee esterne non funzionano... avvertiremo sua moglie... Mi colleghi di nuovo con il governatore!» Non si preoccupavano neppure di nasconderlo. Probabilmente, lui ripeté a voce alta le parole mentre usciva a ritroso dall'ufficio, continuando a fissare lo schermo, perché Jenkins fece un sorriso mal riuscito.

«Dunque siamo isolati. Lo sapevo già. È appena arrivata la Meyers con altri particolari». Il giovane medico indicò con un cenno l'infermiera che usciva in quel momento dallo spogliatoio assestandosi l'uniforme. Il suo viso quasi grazioso aveva l'aria più confusa che preoccupata.

«Stavo uscendo dallo stabilimento, dottor Ferrel, quando ho sentito che chiamavano il mio nome con l'altoparlante esterno ma non mi è stato facile rientrare. Siamo chiusi dentro! Li ho visti, ai cancelli... guardiani con lo sfollagente. Mandavano via tutti quelli che volevano entrare, e non spiegavano il perché. C'era l'ordine di non far passare nessuno fino a quando Mr. Palmer non avesse dato l'autorizzazione. E in un primo momento non volevano lasciarmi rientrare. Crede... sa di cosa si tratta? Ho sentito certe cose che in realtà non significano niente, ma...»

«Ne so quanto lei, infermiera Meyers, anche se Palmer ha parlato di un'imprudenza e di uno dei portelli del 3 o del 4,» rispose Ferrel. «Probabilmente sono semplici misure precauzionali. Comunque, ora non me ne preoccuperei».

«Sì, dottor Ferrel». La Meyers annuì e se andò, ma non aveva l'aria molto tranquilla. Doc si rese conto che anche lui e Jenkins, in quel momento, non sembravano troppo fiduciosi.

«Jenkins», disse quando la donna si fu allontanata, «se sa qualcosa che io non so, per amor del cielo, fuori la verità! Non ho mai visto una situazione del genere, qui».

Jenkins si scosse e, per la prima volta da quando era stato assunto, chiamò Ferrel con il nomignolo confidenziale. «Doc... non lo so... per questo sono così frastornato. So giusto quanto basta per essere meno sicuro di lei, e ho una paura d'inferno!»

«Mi faccia vedere le mani». Era quasi una monomania, per Ferrel, e lo sapeva: ma sapeva anche che non era ingiustificata. Jenkins alzò prontamente le mani: non tremavano. Il giovane alzò il braccio, in modo che la manica scivolasse oltre il gomito, e Ferrel annuì: non c'erano rivoli di sudore che scendessero dalle ascelle, rivelando un caso di nervosismo, più grave di quanto apparisse in superficie. «Va abbastanza bene, figliolo; non m'interessa che lei abbia paura... ho paura anch'io. Ma dato che Blake è fuori causa, e sicuramente gli altri, infermiere e portantini, sono irraggiungibili, avrò bisogno del suo contributo».

«Doc?»

«Si?»

«Se è disposto a credermi, posso far venire qui un'altra infermiera... e per giunta efficiente. Non ce n'é una migliore, e adesso non sta lavorando. Non pensavo che... beh, comunque mi spellerebbe vivo se non la chiamassi, adesso che ne abbiamo bisogno. La vuole?»

«Non si può chiamare l'esterno», gli ricordò Doc. Era la prima volta che vedeva un autentico entusiasmo sul volto del ragazzo e, indipendentemente dal fatto che l'infermiera fosse efficiente o no, sarebbe stata utile per sollevare il morale di Jenkins. «Comunque tenti: in questo momento un'infermiera ci farebbe comodo. È la sua ragazza?»

«È mia moglie». Jenkins si avviò verso lo spogliatoio. «E non ho bisogno del telefono: portavamo radio personali a ultracorte per tenerci in contatto, e io ho ancora qui la mia. E se è preoccupato per le sue qualifiche, lei ha assistito Bayard nelle operazioni alla Mayo, per cinque anni... è così che io sono riuscito a laurearmi in medicina!»

 

La sirena si stava avvicinando di nuovo quando Jenkins ritornò. Le linee di tensione intorno alle sue labbra c'erano ancora, ma adesso il suo portamento era più sicuro. Annuì. «Ho chiamato anche Palmer, e lui ha approvato, senza domandarsi come avevo fatto a mettermi in contatto con mia moglie. La centralinista ha l'ordine di passargli tutte le nostre chiamate con precedenza assoluta, a quando sembra».

Doc annuì, tendendo l'orecchio verso il sibilo della sirena che si avvicinò e che finalmente si spense con un rantolo acido. Provò un senso di sollievo quando vide Jones comparire e dirigersi verso l'ingresso posteriore; lavorare, anche sotto pressione, era sempre più facile che starsene seduti ad attendere. Vide arrivare due barelle, ognuna con un doppio carico, e notò che Beel stava parlando concitato al portantino; aveva abbandonato completamente il suo fare solitamente flemmatico.

«Me ne vado; con domani ho chiuso! Non voglio più vederli tirar fuori i cadaveri... non in quel modo! Non so proprio perché devo tornare indietro, del resto, non gli servirà niente andare più avanti, ammesso che ci riescano. D'ora in poi voglio guidare un camion e che Dio mi aiuti!»

Ferrel lasciò che continuasse a sfogarsi, vagamente consapevole che quell'uomo era al limite dell'isteria. Non ebbe molto tempo da dedicare a Beel, quando vide la carne ustionata attraverso la visiera di una tuta corazzata. «Taglia gli indumenti più che puoi, Jones», ordinò. «Almeno togli le tute. L'acido tannico è pronto, infermiera?»

«Pronto», rispose la Meyers, contemporaneamente a Jenkins, che stava aiutando Jones a rimuovere le tute corazzate e i caschi.

Ferrel premette di nuovo il pulsante delle vibrazioni supersoniche, lasciando che sterilizzassero le tute metalliche... non era possibile fare i pignoli con l'asepsi; a questo dovevano provvedere le vibrazioni supersoniche e le lampade ultraviolette, e dovevano bastare, in buona misura, anche se la cosa non lo entusiasmava. Jenkins finì la sua parte, andò a prendere un altro paio di guanti, tuffando per un attimo le mani nell'antisettico e sciacquandole. La Dodd lo segui, mentre Jones sospingeva tre pazienti al centro della sala operatoria per l'intervento. Il quarto era morto durante il tragitto.

Sarebbe stato un lavoro tremendo, evidentemente. Dove il metallo delle tute l'aveva toccata o sfiorata, la carne era ustionata... carbonizzata, addirittura. E quello era ancora il meno, perché c'erano i segni di gravi ustioni da radiazioni, che probabilmente non si erano arrestate in superficie, ma erano penetrate attraverso la carne e le ossa, fino agli organi vitali. E c'era anche di peggio; le spasmodiche contrazioni muscolari indicavano che la materia radioattiva era entrata nella carne e agiva direttamente sui nervi che controllavano gli impulsi motori. Jenkins diede un'occhiata frettolosa al suo paziente che si contorceva, e divenne ancora più pallido, di un pallore giallastro: era il primo vero esempio delle possibili conseguenze di un incidente atomico che lui avesse visto.

«Curaro», disse finalmente, con voce forzata ma sicura. La Meyers gli passò la siringa e Jenkins inseri l'ago, con la mano ancora ferma... più che normalmente ferma, anzi, con l'assoluta mancanza di movimento che s'impone nella tensione di un'emergenza. Ferrel riabbassò gli occhi sul proprio paziente, sollevato e nel contempo allarmato.

A giudicare dall'ampiezza delle convulsioni muscolari, poteva esserci una sola spiegazione... chissà come, le sostanze radioattive erano penetrate non soltanto attraverso la grata dell'areazione, ma persino attraverso le giunture pressoché stagne, piantandosi direttamente nei corpi degli uomini. Adesso immettevano radiazioni in ogni nervo, escludendo gli ordini normali emessi dal cervello e dal midollo spinale, e imponendo ordini anarchici che facevano sussultare e torcere i muscoli uno contro l'altro, senza coordinamento e senza ragione, senza le normali restrizioni che un corpo impone a se stesso. Il paragone più calzante era un uomo sottoposto a shock da metrozol per il trattamento della schizofrenia, o un grave caso di avvelenamento di stricnina. Ferrel iniettò scrupolosamente il curaro, misurando il dosaggio in base alla stima migliore che poteva effettuare; ma Jenkins agiva sotto pressione, e fini la seconda iniezione quando Doc alzò la testa dopo aver terminato la prima. Nonostante la rapida diffusione del medicinale nell'organismo, i sussulti continuavano ancora, in parte.

«Curaro», ripeté Jenkins, e Doc si tese, mentalmente: lui si stava ancora chiedendo se era il caso di rischiare con una dose in più. Ma non diede un controordine, un pò sollevato, questa volta, al pensiero che la decisione gli venisse sottratta; Jenkins si rimise al lavoro, insistendo con le iniezioni fino al limite assoluto di sicurezza e anche un pò oltre. Uno dei pazienti aveva incominciato a emettere uno strano gemito sottile che s'interrompeva e riprendeva via via che i polmoni e le corde vocali trovavano e smarrivano la sincronizzazione; ma si calmò sotto gli effetti del curaro. Pochi minuti dopo, i tre rimasero immobili, respirando con la flaccidità superficiale comune nei trattamenti con quella sostanza. Si muovevano ancora leggermente, ma mentre prima rischiavano di fratturarsi le ossa in quegli sforzi inconsulti, adesso si limitavano a rabbrividire come se avessero freddo.

 

«Dio benedica l'uomo che ha prodotto sinteticamente il curaro», mormorò Jenkins mentre incominciava a rimuovere i tessuti lesionati, assistito dalla Meyers.

Doc era pronto a sottoscrivere; con il vecchio prodotto naturale, una vera standardizzazione e il dosaggio esatto erano pressoché impossibili. Troppo, e l'effetto sull'organismo era letale: il paziente moriva in pochi minuti per «esaurimento» dei muscoli del torace. Troppo poco era praticamente inutile. Adesso che il pericolo di auto-lesioni e di esaurimento mortale per gli sforzi eccessivi era superato, poteva occuparsi di cose relativamente poco importanti come la sofferenza... il curaro non esercitava effetti particolari sui nervi sensori. Iniettò la neo-eroina e cominciò a pulire le aree ustionate e a trattarle con il solito acido tannico, dopo aver usato un sulfonamide per eliminare le possibili infezioni. E di tanto in tanto alzava gli occhi verso Jenkins.

Ma non aveva bisogno di preoccuparsi; i nervi del ragazzo erano impietriti in una calma innaturale che gli imponeva una rapidità di movimenti quale Ferrel non tentava di imitare, sapendo che l'esito avrebbe potuto risentirne. A un suo gesto, la Dodd gli porse il piccolo contatore di radiazioni, e lui cominciò a cercare sulla pelle, centimetro per centimetro, i frammenti quasi microscopici di materia; non c'era speranza di trovarli tutti, adesso, ma i depositi più massicci si potevano scoprire e rimuovere; più tardi, quando avrebbero avuto più tempo, si sarebbe effettuata una ricerca definitiva.

«Jenkins», chiese Doc, «cosa sa dell'effetto chimico dell'I-713? È sostanzialmente velenoso per l'organismo?»

«No. È del tutto innocuo, a parte le radiazioni. Otto elettroni nell'orbita esterna chimicamente inerte».

Quello, almeno, era un sollievo. Le radiazioni erano già terribili in se stesse: ma quando si univano all'avvelenamento da metallo, come nel caso del radio o del mercurio, erano anche peggio. Le piccole particelle colloidali dell'I-713 piantate nella carne avrebbero inviato il loro segnale di pericolo, e nei casi più gravi sarebbe stato possibile asportarle, altrimenti, con ogni probabilità sarebbero rimaste dov'erano fino a quando l'isotopo si fosse esaurito. Per fortuna, il suo periodo di dimezzamento era breve, e questo avrebbe ridotto la lunga ospedalizzazione e le sofferenze degli uomini.

Jenkins assistette Ferrel con l'ultimo paziente, sostituendo la Dodd nel passargli i ferri. Doc avrebbe preferito l'infermiera che era abituata ai suoi piccoli segnali; ma non disse nulla, e si stupì nel notare l'efficienza con cui collaborava il giovane. «E i prodotti della disintegrazione?» chiese.

«L'I-713? Quasi tutti innocui, e quelli che non lo sono non presentano una concentrazione abbastanza alta per destare preoccupazioni. Cioè, se è ancora I-713. Altrimenti...»

Altrimenti, concluse mentalmente Doc, Jenkins intendeva dire che non ci sarebbe stato pericolo di avvelenamento, almeno. L'Isotopo R, con un periodo di degenerazione incerta, si trasformava nell'Isotopo di Mahler, con una disintegrazione completa in un miliardesimo di secondo. Ebbe una fuggevole visione di uomini saturati dalla finissima dispersione di quella sostanza che eruttava all'improvviso sui loro corpi con una violenza indescrivibile; e Jenkins doveva aver pensato la stessa cosa. Per qualche secondo restarono a guardarsi in silenzio, e nessuno dei due si decise a parlarne. Ferrel tese la mano per farsi passare la sonda, Jenkins alzò le spalle, e continuarono entrambi, con il loro lavoro e i loro pensieri.

Era un quadro impossibile da immaginare; se ci fosse stata un'esplosione atomica del genere, ciò che sarebbe accaduto al laboratorio era problematico. Nessuno conosceva l'esatto quantitativo con il quale aveva lavorato Maicewicz; si sapeva soltanto che era il quantitativo minimo utilizzabile, quindi non era possibile fare una stima adeguata dei danni. I pazienti sui tavoli operatori, i pezzetti di tessuti asportati contenenti minuti globuli radioattivi, persino i ferri che li avevano toccati, erano bombe in attesa di esplodere. Le dita di Ferrel assunsero un pò della fermezza che raggelava Jenkins, mentre continuava il suo lavoro, imponendo alla propria mente di concentrarsi su quel difficile compito.

 

Erano trascorsi minuti, o forse ore, quando venne sistemata l'ultima fasciatura e le tre ossa fratturate del paziente più grave vennero ingessate. La Meyers e la Dodd, insieme a Jones, stavano sistemando i feriti nelle camerette, i due medici erano rimasti soli, ed evitavano cautamente di guardarsi negli occhi, attendendo senza sapere che cosa attendessero.

Dall'esterno giunse loro uno sbuffare monotono e il tonfo di qualcosa di pesante che si muoveva sui viali. Mossi dallo stesso impulso, andarono alla porta laterale e guardarono fuori. Videro la parte posteriore di una delle ruspe carrozzate elettriche che si allontanava. Da un pò era scesa la notte, ma i riflettori delle grandi torri intorno al recinto facevano spiccare lo stabilimento in tutti i dettagli. Ma si vedeva solo la ruspa che si allontanava; le altre costruzioni ostacolavano la visuale.

Poi, dalla direzione del cancello principale, un fischio stridulo fendette l'aria: poi un suono di voci maschili, sebbene non si distinguessero le parole. Vennero sillabe brusche e secche, e Jenkins annuì lentamente. «Scommetto cento a dieci», cominciò, «che... oh, è inutile scommettere. È così».

Dall'angolo spuntò una squadra di uomini nell'uniforme della milizia statale, con i fucili e baionette imbracciati. Con efficiente precisione, si sparsero, agli ordini di un sergente. Ognuno si piazzò davanti alla porta di un edificio; e uno di loro si diresse verso Ferrel e Jenkins.

«Allora è di questo che Palmer stava parlando con il governatore», mormorò Ferrel. «È inutile interrogarli, immagino; ne sanno meno di noi. Venga dentro: potremo sederci e riposare. Chissà cosa può fare qui la milizia... a meno che Palmer tema che qualcuno perda la testa e causi guai».

Jenkins lo segui in ufficio e accettò automaticamente una sigaretta, mentre si lasciava cadere su una poltrona. Doc stava scoprendo che era un sollievo concedere ai muscoli e ai nervi una possibilità di rilassamento e cominciava a rendersi conto che erano rimasti in sala operatoria molto più a lungo di quanto avesse creduto. «Vuol bere qualcosa?»

«Uh... ma possiamo, Doc? È facile che ci tocchi ricominciare da un momento all'altro».

Ferrel sorrise, con uno sforzo, e annuì. «Non le farà male... siamo abbastanza tesi e stanchi perché l'alcool venga bruciato come combustibile dal nostro organismo senza arrivare ai nervi. Ecco». Versò una generosa dose di rye per ciascuno, sufficiente a pervaderli di un'immediata sensazione di calore e a rilassare i loro nervi tesissimi. «Chissà perché Beel non è ancora tornato».

«La ruspa corazzata che abbiamo visto probabilmente lo spiega: è diventato troppo difficile per gli uomini continuare a lavorare con le tute, e devono incominciare a scavare nei convertitori con le ruspe. Era elettrica, no? A batteria... Quindi là ci sono abbastanza radiazioni per influire sulle macchine a energia atomica. Qualunque cosa stiano facendo, è un lavoro duro e lento. Comunque, è più importante attenuare gli effetti che tirar fuori gli uomini, se ne rendono conto... Sue!»

Ferrel alzò la testa di scatto e vide la ragazza, già vestita di tutto punto per entrare in sala operatoria; e non era troppo vecchio per non provare un piccolo fremito di approvazione. Non era sorprendente che Jenkins si fosse illuminato in volto. La ragazza era piccola, ma aveva una figura modellata come quella di una donna più alta, non secondo le linee graziose o impertinenti solitamente associate con le donne più minute, e l'espressione seria ed efficiente non nascondeva la vivacità del viso, evidentemente aveva diversi anni più di Jenkins, ma quando lui si alzò per andarle incontro, il volto della donna si addolcì e sembrò ringiovanire.

«Lei è il dottor Ferrel?» chiese la nuova arrivata, rivolgendosi a lui. «Ho tardato un pò... hanno fatto qualche difficoltà, all'inizio, per lasciarmi entrare... perciò sono andata subito a prepararmi prima di disturbarla. E non deve aver paura di servirsi di me; le mie credenziali sono qui».

Posò sulla scrivania il fascio di documenti, e Ferrel li esaminò in fretta: erano anche meglio di quanto si aspettasse. Tecnicamente, Sue Jenkins non era un'infermiera, bensì un dottore in medicina, un cosiddetto medico-infermiere. Per anni s'era sentita la necessità di assistenti che fossero una via di mezzo tra dottori e infermieri, con la preparazione generale e le capacità degli uni e degli altri, ma solo nell'ultimo decennio era stato creato quel corso, e i laureati erano ancora pochi. Ferrel restituì i documenti, annuendo.

«Potremo servirci di lei, dottoressa...»

«Brown... è il cognome professionale, dottor Ferrel. E sono abituata a sentirmi chiamare infermiera Brown».

Jenkins tagliò corto le formalità: «Sue, fuori si sa niente di quel che sta succedendo qui?»

«Soltanto voci, ma sono assurde; e del resto non ho avuto occasione di sentirne molte. So soltanto che stanno parlando di evacuare la città e l'intera zona in un raggio di cinquanta miglia, ma non è ufficiale. Certuni dicevano che il governatore stava mandando le truppe per proclamare la legge marziale in tutto il settore, ma non ne ho viste se non qui».

 

Poi Jenkins la condusse fuori per mostrarle l'infermeria e presentarla a Jones e alle altre due infermiere, lasciando Ferrel ad attendere il suono della sirena e a cercare di sommare due e due per ottenere sedici. Ferrel cercò di capire qualcosa dell'articolo del Weekly Ray, ma alla fine vi rinunciò; la teoria atomica era progredita troppo da quando lui l'aveva studiata sommariamente, e quasi tutti i simboli non gli dicevano nulla. A quanto pareva, avrebbe dovuto fare affidamento su Jenkins. Ma intanto, perché l'ambulanza non arrivava? Avrebbe dovuto udire la sirena già da parecchio.

Comunque, non fu l'ambulanza ad arrivare, ma un gruppo di cinque uomini: due ne portavano un terzo, e il quarto sorreggeva il quinto. Jenkins si occupò del paziente che era stato portato di peso, con l'aiuto di Sue Brown. Era come i casi precedenti, ma senza le ustioni dovute al contatto con il metallo rovente. Ferrel si rivolse agli uomini.

«Dove sono Beel e l'ambulanza?» Mentre faceva quella domanda, stava esaminando la gamba dell'uomo sorretto dal compagno; cominciò a lavorare senza farlo stendere sul tavolo operatorio. Un pezzetto di materiale radioattivo, grosso come un pisello, era penetrato d'un centimetro nella carne sotto la coscia, e la frattura dell'osso era la conseguenza delle violente contrazioni dei muscoli per lo stimolo delle radiazioni. Non era un bello spettacolo. Adesso, però, l'effetto aveva bruciato i nervi tutto intorno, e la gamba era relativamente inerte e insensibile; l'uomo stava abbandonato sulla panca, in stato semi-comatoso, con gli occhi stralunati e le labbra contratte in una smorfia, ma non sussultò mentre la piaga veniva ripulita. Ferrel lavorava usando un piccolo scudo di piombo, con le braccia coperte di pesantissimi guanti imbevuti di piombo, e lasciava cadere i frammenti di carne e di isotopo in una cassetta dello stesso metallo.

«Beel... è fuori da questo mondo, Doc», rispose uno degli altri, quando riuscì a distogliere lo sguardo dall'operazione. «Si è ubriacato, e ha messo fuori uso l'ambulanza prima di tornare indietro. Non sopportava di vederci mentre li tiravamo fuori... e noi dovevamo farlo senza bere neppure un goccetto!»

Ferrel lanciò un'occhiata all'uomo e notò, nel contempo, che Jenkins girava di scatto la testa. «Li stavate tirando fuori? Vuol dire che non venite di là?»

«No, che diavolo, Doc. Le sembriamo ridotti così male? Quei due si sono conciati così quando quella roba gli ha trapassato l'armatura. Io mi sono buscato qualche bella bruciatura, ma non mi lamento... ho visto un paio dei morti, quindi non protesto!»

Ferrel non aveva osservato i tre che erano arrivati lì con le loro gambe, ma ora li guardò attentamente. Erano ustionati, e piuttosto seriamente, dalle radiazioni; ma le ustioni erano ancora troppo recenti per farli soffrire molto, e probabilmente quello che avevano visto aveva attutito per il momento la sensazione del dolore, come un soldato in combattimenti può venir ferito e accorgersene soltanto alla fine dell'azione. Comunque, i lavoratori degli stabilimenti atomici non erano donnicciole.

«In ufficio, sul tavolo, c'è una bottiglia quasi piena», disse loro. «Una bella sorsata ciascuno... non di più. Poi andate in ambulatorio, e vi manderò l'infermiera Brown a medicarvi le ustioni». La Brown poteva applicare gli unguenti antiradiazioni, e a Doc sembrava necessaria una divisione del lavoro che alleggerisse il compito suo e di Jenkins. «C'è speranza di trovare altri uomini vivi nei capannoni dei convertitori?»

«Può darsi. Qualcuno ha detto che quel coso ha emesso un brontolio mezzo minuto prima di scoppiare, e così molti hanno avuto la possibilità di rifugiarsi nelle due camere di sicurezza. Stavamo pensando di tornare là ad azionare le ruspe, a meno che lei ci dica di no. Ci vorrà ancora una mezz'ora di lavoro prima che possiamo sfondare le camere, credo. E allora lo sapremo».

«Bene. E non ha senso mandare da noi tutti gli ustionati, altrimenti qui non sapremo più come fare; loro possono aspettare, e a quanto pare avremo parecchi casi gravi da curare. Dottoressa Brown, vada con questi uomini... incarichi uno di loro di guidare l'ambulanza di scorta che Jones le mostrerà. Usi l'unguento per gli ustionati, faccia smettere di lavorare i più gravi e mandi qui quelli con le convulsioni. Troverà la mia cassetta di pronto soccorso lì in ufficio. C'è bisogno di qualcuno che vada a prestare i primi aiuti e ad accertare in che condizioni sono gli uomini... qui dentro non abbiamo posto per tutto lo stabilimento».

«Bene, dottor Ferrel». Sue Brown lasciò che la Meyers la sostituisse nell'assistere Jenkins, uscì per un momento e ritornò con la cassetta. «Venite, uomini. Salirò sull'ambulanza e vi fascerò le ustioni lungo la strada. Lei guiderà, signor mio. Qualcuno avrebbe dovuto riferire prima quel che ha combinato Beel; adesso là fuori ci sarebbe l'ambulanza».

Il portavoce del piccolo gruppo alzò il bicchiere che aveva riempito, trangugiò e le rivolse un gran sorriso. «Bene, dottoressa, ma la fuori non c'è molto tempo per pensare... bisogna agire Grazie del goccetto, Doc. Dirò a Hoke che l'ha incaricata lei, la signora».

 

Gli uomini uscirono in fila indiana dietro a Sue Brown mentre Jones andava a prendere la seconda ambulanza, e Doc continuò a sistemare il gesso a presa rapida intorno alla gamba fratturata. Peccato che non fossero più numerosi, i dottori-infermieri; avrebbe dovuto parlarne a Palmer, quando quella storia fosse finita... se lui e Palmer fossero stati ancora lì. Chissà come se la sarebbero cavata gli uomini chiusi nelle camere di sicurezza che lui aveva completamente dimenticato. Ce n'erano due in ogni capannone dei convertitori, ideate come rifugio per gli addetti in caso d'incidente, e dovevano essere praticamente a prova di tutto. Se gli uomini le avevano raggiunte, forse erano tutti illesi; ma Doc non ci avrebbe scommesso. Scrollando le spalle, fini il suo lavoro e andò ad aiutare Jenkins.

Il giovane indicò il corpo steso sul tavolo operatorio, che già mostrava i segni dei suoi interventi. «L'isotopo è passato attraverso la corazza», commentò. «Quelle parole sono state un pò troppo esplicite, per me. L'I-713 non poteva riuscirci».

«Uhm». Doc non era dell'umore adatto per discutere. Si sorprese a guardare la cassetta nella quale veniva riposto il materiale che riuscivano a estrarre dalla carne, e distolse in fretta gli occhi. Ogni volta che il coperchio si abbassava, nell'interno si vedeva un luccichio. Jenkins guardava sempre da un'altra parte.

Avevano quasi finito quando la centralinista annunciò una chiamata; attesero di aver dato gli ultimi tocchi prima di rispondere poi entrarono insieme nell'ufficio. Sullo schermo c'era il viso della Brown, sporco con due chiazze di belletto che spiccavano sulle guance. Un'altra macchia apparve quando si scostò i capelli fulvi dagli occhi con il dorso della mano.

«Hanno sfondato le camere di sicurezza del convertitore, dottor Ferrel. Quella nord ha retto perfettamente, a parte il calore e qualche ustione di poco conto. Ma nell'altra è successo qualcosa. La valvola dell'ossigeno si è bloccata, e sono tutti svenuti, ma vivi. Il magma deve essere sprizzato attraverso la porta, perché sedici o diciassette hanno le convulsioni, e c'è una dozzina di morti. Altri hanno bisogno di cure che io non sono in grado di dare... Ho chiesto a Hokusai di incaricare gli uomini di portare quelli che non potevano sistemare sulle barelle, e stanno per arrivare tutti li da lei!»

Ferrel borbottò e annui. «Poteva andar peggio, immagino. Non si ammazzi là fuori, dottoressa Brown».

«Lo stesso vale anche per voi.» Lei buttò un bacio a Jenkins e tolse la comunicazione mentre la sirena dell'ambulanza si faceva sentire.

Tornarono in camera operatoria e videro un camion che seguiva l'ambulanza, e uomini che scaricavano i feriti in una successione apparentemente interminabile.

«Togli le corazze, Jones... fatti aiutare dagli altri. Curaro, infermiera Dodd, e continui a passarlo a me. Non si preoccupi d'altro, fino a quando io e Jenkins non li avremo calmati». Evidentemente, sarebbe stato un lavoro in serie, non per efficienza, ma per necessità. E ancora una volta Jenkins, con quella strana, tesa fermezza, faceva il doppio del lavoro di Doc: era pallido e aveva gli occhi quasi vitrei, ma le sue mani non si fermarono mai.

A un certo momento, durante la notte, Jenkins alzò gli occhi verso la Meyers e la chiamò con un cenno. «Vada a dormire un pò, infermiera: Miss Dodd può assistere sia me che il dottor Ferrel, quando lavoriamo vicini. Lei ha i nervi scossi e ha bisogno di riposo. Infermiera Dodd, fra due ore la chiami e poi riposi un pò anche lei».

«E lei, dottore?»

«Io...» Jenkins sorrise con un angolo della bocca. «Ho una fantasia che non vuol saperne di dormire, e poi c'è bisogno di me». La frase terminò con un'inflessione in crescendo che suonò falsa alle orecchie di Doc, il quale guardò pensosamente il giovane.

Jenkins notò l'occhiata. «Tutto bene, Doc. Glielo farò sapere, quando starò per crollare, ho fatto bene a mandare la Meyers a riposare, no?»

«Lei le era più vicino di me, quindi dovrebbe saperlo». Tecnicamente, tutte le infermiere erano ai suoi ordini diretti, ma da molto tempo avevano abbandonato quelle formalità. Ferrel si massaggiò per un attimo le reni e riprese il bisturi.

Una fioca luce grigia stava spuntando a est, e i pazienti che non trovavano più posto nelle stanze erano ormai traboccati nella sala d'aspetto, quando anche l'ultimo caso venne sbrigato alla meglio. Durante la notte, il convertitore aveva continuato a sputacchiare, di tanto in tanto, per due volte persino attraverso la corazza della ruspa: ma adesso c'era una tregua temporanea negli arrivi dei pazienti. Doc mandò Jones a prendere la colazione alla mensa, poi entrò nell'ufficio dove Jenkins era già accasciato sulla vecchia poltrona di pelle.

Il ragazzo era esausto fin quasi al limite, per l'effetto combinato della fatica e del nervosismo represso, ma alzò gii occhi, blandamente sorpreso, quando senti la puntura dell'ago. Ferrel finì l'iniezione, poi ne praticò una a se stesso, prima di spiegare. «Morfina, ovviamente. Che altro possiamo fare? Quanto basta per tenerci in piedi: ma senza saremmo tutti e due inutili tra poche ore. Comunque, oggi non c'è più ragione di non usarle, diversamente da quando ero giovane, prima che scoprissero l'antidoto capace di annullare quasi del tutto la tendenza all'assuefazione Persino cinque anni fa. prima che lo trovassero, qualche volta la morfina era utile. Dio lo sa. anche se chiunque la adoperava senza che ce ne fosse estremo bisogno ne passava di tutti i colori. Un vero surrogato per il sonno, però, andrebbe meglio: vorrei che a Harvard avessero messo a punto quell'eliminatore della stanchezza su cui stanno lavorando. Su, mangi!»

Jenkins guardò con una smorfia la colazione che Jones gli metteva davanti, ma sapeva non meno di Ferrel che il cibo era necessario, e tirò a sé il piatto. «Io darei un occhio, Doc, non per un surrogato... ma per una mezz'ora di buon sonno all'antica. Però, maledizione, anche se ne avessi il tempo non riuscirei a dormire... con l'R là fuori che sta bollendo».

La voce della centralinista risuonò prima che Doc potesse rispondere. «Telefonata per il dottor Ferrel. Urgente! La dottoressa Brown chiama il dottor Ferrel!»

«Qui Ferrel!» La faccia della centralinista sparì dallo schermo e apparve quella stanchissima di Sue Brown «Cosa c'è?»

«È quel piccolo giapponese. Hokusai, quello che dirige le operazioni qui. dottor Ferrel. Glielo sto portando. Un attacco d'appendicite acuta. Si prepari a operare!»

Jenkins quasi si strangolò con il caffé che stava tentando di ingurgitare. La sua voce soffocata aveva un tono tra il disgusto e l'isteria. «Appendicite, Doc! Mio Dio, e che altro ancora?»

 

III.

 

Sarebbe potuto andar peggio. Sue Brown aveva innestato la piccola unità refrigerante dell'ambulanza e aveva abbassato la temperatura intorno all'addome, preparando Hokusai per l'intervento e rallentando il processo infettivo, così che l'appendice non era ancora perforata quando il giapponese venne portato in sala operatoria. Il viso grinzoso dell'orientale era più grigio che olivastro. Tuttavia riuscì a sorridere debolmente.

«Molte scuse, dottor Ferrel, di disturbare lei. Molte scuse. Niente etere, prego!»

Ferrel grugnì. «Non ce n'è bisogno, Hoke; useremo l'ipotermia, dato che è già iniziata. Qui. Jones... E lei torni a sedersi, Jenkins».

Sue Brown era andata a lavarsi: ritornò pronta ad assisterlo nell'operazione. «Abbiamo dovuto praticamente legarlo, dottor Ferrel. Diceva che aveva soltanto bisogno di un pò d'olio minerale e di menta piperita per il suo mal di stomaco! Perché le persone intelligenti sono sempre le più stupide?»

Anche per Ferrel era un mistero: ma era proprio così. Controllò in fretta la temperatura mentre incominciava a funzionare l'apparecchio per l'ipotermia; accertò che era abbastanza bassa, e incominciò. Hoke sbatté gli occhi quando il bisturi lo toccò, poi li spalancò, blandamente sorpreso di non sentire dolore. La totale assenza di reazioni nervose, con la conseguente mancanza di shock postoperatorio, era uno dei grandi vantaggi della chirurgia ipotermica. Ferrel scostò i tessuti, recise prontamente l'appendice e la estrasse attraverso la piccola incisione. Poi, con una delle numerose estensioni usò l'ingegnosa suturatrice meccanica e indietreggiò di un passo.

«È tutto finito. Hoke. È stato fortunato che non ci sia stata perforazione... la peritonite non è piacevole, anche se possiamo aggredirla con i sulfonamidi. Tutti i letti sono occupati, e anche la sala d'attesa, quindi dovrà restare sul tavolo operatorio per qualche ora, fino a quando le troveremo un posto. E non avrà neppure una bella infermiera, finché le altre due ragazze arriveranno questa mattina. Non so come faremo con i pazienti».

«Ma, dottor Ferrel, io sono sentito dire che con chirurgia moderna... avrei essere già in piedi. Ho molto lavoro che fare».

«Ha sentito dire che i pazienti di appendicectomia non devono più restare a letto, eh? Beh, in parte è vero. Al Johns Hopkins hanno incominciato già da diverso tempo. Ma per un'ora, fino a quando la temperatura non tornerà normale, dovrà starsene buono. Dopo, se vorrà muoversi un pò, potrà farlo: ma non andrà al convertitore. Un pò di moto probabilmente fa più bene che male, ma non deve sforzarsi».

«Ma il pericolo...»

«Vada a farsi impiccare. Hoke. Adesso non potrebbe rendersi utile. Non si reggerebbe abbastanza a lungo. Fino a quando la sostanza dei punti non si sarà sciolta completamente, dovrà starsene tranquillo... all'incirca per un paio di settimane».

L'ometto si arrese riluttante. «Allora credo che adesso dormo. Ma meglio che lei dovesse chiamare Mr. Palmer subito, prego! Lui deve ssapere che io non ssono là!»

Palmer prese male la notizia, con una tendenza ingiusta ma naturale a darne la colpa a Hokusai e a Ferrel. «Maledizione, Doc, speravo che lui avrebbe sistemato le cose in qualche modo... in pratica ho assicurato al governatore che Hoke avrebbe potuto provvedere; è una delle menti migliori in circolazione. E adesso questo! Beh, non c'è niente da fare, immagino. Certamente Hoke non può farcela se non è in condizioni di essere presente sul posto. Ma forse Jorgenson ne sa abbastanza per occuparsene, da una sedia a rotelle o qualcosa del genere. Come sta, a proposito... è in grado di venire trasportato dove potrà dare disposizioni ai capisquadra?»

«Aspetti un momento». Ferrel l'interruppe prontamente. «Qui Jorgenson non c'è. Abbiamo trentun uomini ricoverati qui, e non è tra loro; e se fosse stato tra i diciassette morti, lei sarebbe stato informato. Io non sapevo neppure che Jorgenson fosse al lavoro».

«Doveva, per forza... era il suo processo! Senta, Ferrel, mi hanno detto che lo stavano portando da lei... il caposquadra lo ha caricato personalmente sulla barella e me l'ha riferito immediatamente. È meglio che lei controlli, e in fretta... con Hoke abile solo per metà, ho bisogno di Jorgenson!»

«Qui non c'è... conosco Jorgenson. Il caposquadra deve aver scambiato per lui quel tipo grande e grosso che hanno tirato fuori dalla camera di sicurezza sud: ma quello, sotto il casco, aveva i capelli neri. E i trecento e più che erano soltanto svenuti, o i millecinque-milleseicento uomini che erano fuori dal convertitore quando è successo l'incidente?»

Palmer contrasse i muscoli della mascella. «Jorgenson si sarebbe messo in contatto con me, o gli altri me l'avrebbero segnalato cinquanta volte. Tutti quanti, là fuori, vogliono che ci sia lui a dirigere le operazioni. Dev'essere per forza all'infermeria».

«Non c'è. le dico! E non sarebbe il caso di trasferire qualcuno dei feriti agli ospedali cittadini?»

«Ho tentato... gli ospedali devono aver saputo che hanno sostanze radioattive nella carne, e rifiutano di ricoverare chiunque venga da qui». Palmer parlava solo con la superficie della mente, muovendo i muscoli delle guance come se stesse masticando i propri pensieri e li trovasse troppo duri. «Jorgenson... Hoke... e Kellar morto da anni. Non c'è un altro uomo, in tutto il paese, che ne capisca abbastanza in questo campo per formulare anche soltanto un'ipotesi decente; io stesso mi sento perso quando arrivo a pagina sei. Ferrel, un uomo con un'armatura Tomlin a cinque scudi potrebbe mettersi al sicuro in venti secondi, secondo lei, da... diciamo dalle immediate vicinanze del convertitore?»

Ferrel rifletté rapidamente. Una Tomlin pesava all'incirca centottanta chili, e Jorgenson era forte come un bue, ma era soltanto un essere umano. «In una situazione d'emergenza, è impossibile indovinare cosa può fare un uomo, Palmer, ma non so come potrebbe aver percorso metà di quella distanza».

«Uhm. L'immaginavo. Potrebbe essere sopravvissuto, allora, supponendo che non sia stato schiacciato? Quelle tute hanno una riserva d'aria per ventiquattro ore, sa, per evitare perdite d'aria pompano l'anidride carbonica sotto pressione e condensano l'umidità... non hanno aperture. Il miglior isolamento che si conosca, per giunta».

«Una probabilità su un miliardo, direi; ma, ripeto, è maledettamente difficile porre un limite esatto a quello che si può fare... i miracoli continuano ad accadere ogni giorno. Ha intenzione di tentare?»

«Che altro posso fare? Non ci sono alternative. L'aspetto davanti al numero 4: venga al più presto e porti tutto il necessario per cominciare a lavorare subito. Non dobbiamo perdere un secondo!» Palmer si mosse, alzandosi mentre allungava la mano per togliere la comunicazione, e Ferrel si affrettò a imitarlo.

 

Secondo logica, non c'era una sola probabilità, neppure con una Tomlin. Ma, fino a quando non ne avessero avuto la certezza, avrebbero dovuto tentare; non si potevano correre rischi quando un processo complicato era sfuggito al controllo, e adesso quasi sicuramente il risultato era l'Isotopo R... Palmer non nascondeva nulla, sebbene non avesse fatto affermazioni esplicite. E ovviamente, se Hoke non poteva occuparsene, nessuno degli uomini delle altre filiali della National Atomic o degli stabilimenti più piccoli e semi-indipendenti era in grado di dirigere i lavori.

Quindi dipendeva tutto da Jorgenson. E Jorgenson doveva essere da qualche parte, sotto quell'inferno semifuso che riusciva a trapassare la corazza della ruspa e a mandare all'infermeria uomini con le ossa spezzate dall'anarchia dei loro stessi muscoli!

La faccia di Ferrel doveva lasciar trasparire i suoi pensieri, a giudicare dall'espressione sgomenta con cui lo guardò Jenkins. «Jorgenson è ancora là sotto», disse in fretta Doc.

«Jorgenson! Ma è lui che... Buon Dio!»

«Esattamente. Lei resti qui e si occupi dei casi di convulsioni che potrebbero arrivare. Dottoressa Brown, avrò bisogno di lei là fuori. Porti tutto quello che abbiamo di portatile; prenda uno dei camion e lo faccia attrezzare, e poi lo porti sul posto immediatamente! Io vado con l'ambulanza». Doc prese la cassetta del pronto soccorso che Sue Brown gli mise nelle mani, si cacciò in bocca una compressa di caffeina senza perdere tempo a bere un sorso d'acqua per mandarla giù, e si avviò verso l'ambulanza. «Al numero 4, e in fretta!»

Palmer stava saltando giù da uno scooter quando loro girarono intorno al numero 3, davanti alla rudimentale recinzione di corde tese a una notevole distanza dal numero 4. Diede un'occhiata a Doc, annuì, e si lanciò in mezzo agli uomini raggruppati, gridando ordini a destra e a sinistra poi arrivò a fianco di Ferrel nel momento in cui l'ambulanza si fermò.

«Bene, Ferrel, vada là e metta l'armatura, in fretta! Entreremo con le ruspe corazzate, sia possibile o no, e per il momento lasceremo perdere lo spegnimento. Briggs, faccia tirar fuori quella roba, sgombri un percorso meglio che può, rimetta in funzione la gru grande, e avremo bisogno di tutti gli uomini in armatura che possiamo avere... gli dia aste d'acciaio e dica che sondino fra le macerie là dentro e cerchino qualunque cosa di solido e abbastanza grande o piccolo per essere un uomo... turni di cinque minuti. Dovrebbero farcela a resistere. Torno subito!»

Doc notò la confusione di ruspe corazzate e di macchine d'ogni genere ammassate lungo i muri, o meglio, lungo ciò che restava dei muri del capannone del convertitore, e vide che spostavano tutto quanto lungo un lato, lasciando un'apertura nel punto dove prima c'era l'entrata principale del capannone che adesso era sventrata e mostrava il braccio di una gru impegnato a rimuovere gli ostacoli più ingombranti. Evidentemente, stavano cercando di spegnere l'effetto, ma Ferrel conosceva troppo poco l'energia atomica per immaginare di cosa si trattasse. I macchinari venivano spinti da parte dalle ruspe corazzate, senza smantellarli, e gli uomini accorrevano nel tratto recintato, alcuni già in armatura, mentre altri si trascinavano dietro i pezzi della corazza. Anche Doc indossò una tuta, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare, dentro quell'involucro, se ci fosse stato bisogno di fare qualcosa.

Palmer indossò una tuta prima di lui, comunque: lo stava aspettando davanti a una delle ruspe, bassa e pesantemente corazzata, con la parte anteriore armata di pala e di grappa. «A bordo, Doc». Ferrel lo seguì nell'abitacolo della macchina. Palmer prese i comandi, infilando una cuffia a onde corte, e cominciò a gridare ordini alle altre ruspe corazzate che si avvicinavano sui pesanti cingoli. Il rombo sordo del motore crebbe, e la ruspa cominciò ad avanzare pesantemente.

«Non ne ho più guidata una dopo quell'esibizione a un picnic sette anni fa», borbottò Palmer, premendo i pedali e correggendo uno sbandamento verso sinistra. «Però me la cavavo bene, quando ero un semplice ingegnere. Le scariche, qui, soffocano quasi completamente la radio, ma credo che riusciremo a capirci. Secondo quel che posso pensare, Jorgenson doveva trovarsi presso il quadro principale dei comandi quando è cominciato, e deve essersi diretto verso la camera sud. Ha coperto metà della distanza, crede?»

«Può darsi. Probabilmente un pò meno».

«Già. E poi l'esplosione potrebbe averlo buttato chissà dove. Ma dovremo cercare di raggiungerlo». Palmer latrò di nuovo alla radio. «Briggs, faccia avvicinare il più possibile gli uomini in tuta, e ordini di pescare con le aste una decina di metri a sinistra del pilastro che regge ancora... possono avvicinarsi di più?»

La risposta fu confusa e smozzicata, ma il concetto generale era comprensibile. Palmer aggrottò la fronte. «Okay, se non possono farcela, non possono; li riporti indietro, lontano dall'effetto di quella roba, e li tenga pronti a intervenire... No, chieda volontari! Offro mille dollari al minuto per ogni uomo che effettua la ricerca, il doppio alla sua famiglia se quella roba lo frega, e dieci volte tanto, cinquantamila, se trova Jorgenson... Attento, idiota!» Quell'ultima frase era rivolta a uno degli uomini che si era fatto avanti, saltando giù da una massa di macerie per afferrarsi a un pilastro e lanciarsi verso un lastrone che sembrava saldo; il lastrone si rovesciò, ma l'uomo riuscì a spiccare un altro balzo che lo portò a un altro ammasso di macerie, si rimise in bilico e cominciò a sondare con l'asta. «Uff! Tu, con quella gru... resta dove puoi afferrare gli uomini, se perdono i sensi... bene! Doc, anch'io so benissimo che gli uomini non dovrebbero star qui neppure per cinque minuti: ma ne manderò altri cento, se questo servirà a trovare Jorgenson!»

 

Doc non disse nulla... sapeva che probabilmente c'erano cento o più idioti disposti a tentare, e sapeva che c'era bisogno di loro. Le ruspe corazzate non potevano farsi avanti quanto bastava per esaminare attentamente quella massa di materiali radioattivi, di macchinari, di macerie e di distruzione, e oltre tutto erano troppo lente per quei sondaggi delicati: potevano farlo soltanto uomini armati di lunghe aste d'acciaio. Mentre stava a guardare, l'attività del magma causò un'improvvisa eruzione, e uno degli uomini gettò in alto l'asta e arretrò in semicerchio prima di cadere. L'operatore della gru fece girare prontamente il grosso braccio metallico, cercò di afferrarlo, lo mancò, azionò di nuovo il braccio e sollevò il corpo, lo portò indietro, al di fuori della visuale di Ferrel.

Anche attraverso la corazza metallica della ruspa e la tuta, il caldo cresceva, e un leggero prurito nei punti dove l'armatura era più sottile indicava un principio di ustione... non ancora pericolosa, comunque. Ferrel preferiva non pensare a quel che stava accadendo agli uomini che cercavano di penetrare tra le macerie senza altra difesa che la tuta, e non voleva vedere quel che stava accadendo a loro. Palmer cercava di far avanzare la macchina, ma era difficile. Per due volte qualcosa sprizzò contro la ruspa, ma senza penetrare.

«I cinque minuti sono passati», disse Doc a Palmer. «Sarà bene che si presentino subito tutti alla dottoressa Brown. Dovrebbe essere là fuori con il camion».

Palmer annuì e trasmise le istruzioni. «Raccogli tutti quelli che puoi con la gru e portali indietro! Ne mandi un'altra squadra, Briggs, e gli accrediti in anticipo la gratifica. Maledizione, Doc, può continuare così tutto il giorno. Ci vorrà un'ora per cercare qui, e probabilmente lui è altrove. Sembra che le cose peggiorino, qui, in confronto ai rapporti che ho ricevuto prima. Chissà se quella lastra d'acciaio si potrà abbassare?»

Azionò il cambio, collegando il motore ai cingoli, e riuscì a far muovere la ruspa tra le macerie in direzione della lastra. I perni slittarono per un momento, ma poi il muso della ruspa si spinse avanti; quasi con leggerezza, il grosso pezzo di rivestimento in bilico si rovesciò e scivolò in avanti. La ruspa ringhiò, ondeggiò, e poi sali lentamente sopra la lastra, procedette per altri sei metri fino all'estremità: il sostegno si abbassò, assestandosi, ma sotto c'era un ostacolo, e la ruspa restò di nuovo bloccata. Palmer manovrò la grappa per togliere di mezzo un grosso pezzo di muro, e due uomini si fecero avanti con le aste d'acciaio per cominciare a sondare, invano. Poi altri uomini diedero loro il cambio, e poi ne vennero altri ancora.

La voce di Briggs crepitò spezzata dall'altoparlante. «Palmer, qui c'è un pazzo che vuole spingersi all'estremità della sua trave, se le riesce di girare la ruspa in modo che la gru possa depositarlo li».

«Lo mandi!» Ancora una volta. Palmer cominciò a strattonare le leve. e la ruspa sussultò e sobbalzò, indietreggiò e girò, corse avanti e ripeté la manovra, mentre la grande lastra che la sosteneva oscillava avanti e indietro in equilibrio precario.

Doc tratteneva il fiato e pregava in silenzio: la sua ammirazione per gli uomini che si avventuravano tra quella roba ingigantiva insieme al suo rispetto per l'abilità di Palmer.

Il braccio della gru ruotò oscillando verso di loro, e la benna si protese, ma non riuscì a toccare la ruspa: la macchina era relativamente leggera e mobile in confronto a quella macchina coiosssale, ma Palmer s'era già spinto troppo avanti, in bilico sull'orlo della lastra. Mancava ancora un metro al contatto.

«Maledizione!» Palmer spalancò il portello della ruspa, balzò avanti camminando sul cingolo e guardò giù per un attimo prima di rientrare. «Non è possibile avvicinarsi di più! Fiuu! Certo che quegli uomini se la guadagnano, la gratifica!»

Ma anche l'operatore della gru conosceva i suoi trucchi, e stava facendo dondolare lentamente in su e in giù il braccio della macchina, con un movimento che fece oscillare la benna come un pendolo enorme, portandola gradualmente più vicina alla trave della grappa. L'uomo, che stava tendendo il braccio, riuscì finalmente ad afferrarsi alla trave e si staccò dalla benna mentre incominciava l'oscillazione di ritorno. Restò sospeso per un secondo, torcendosi per trovare una posizione migliore, poi si arrampicò fino alla sommità, tenendosi avvinghiato con le gambe. Doc esalò un sospiro di solievo e Palmer fece girare lentissimamente la ruspa, rimettendola in moto. Adesso l'operaio poteva esplorare con l'asta l'ampio tratto davanti a loro, e cominciò a usarla rapidamente.

«Ce la faccia o non ce la faccia, avrà una gratifica tripla», borbottò Palmer. «Uh!»

L'asta aveva individuato qualcosa, e l'uomo stava sondando per determinare le dimensioni: gettò loro un'occhiata e indicò freneticamente. Doc si lanciò dal finestrino mentre Palmer abbassava la grappa e l'affondava nel materiale semiliquido sotto l'asta: c'era una resistenza, ma finalmente la ganascia della grappa si insinuò e urtò contro qualcosa che rifiutava di sollevarsi. Il direttore azionò i comandi con delicatezza, esercitando una trazione laterale: lentamente, l'oggetto cedette e venne verso di loro, sollevandosi fino a quando riuscirono a distinguerne i contorni. Senza il minimo dubbio, non era una tuta Tomlin!

«Un caricatore di piombo! Maledizione... Un momento, Jorgenson non era uno stupido: quando si è accorto che non poteva raggiungere la camera di sicurezza, può darsi che... forse...» Palmer riabbassò la grappa contro il coperchio chiuso della cassa di piombo, ma il gancio era troppo grosso. Poi l'uomo che stava aggrappato là fuori comprese, si lasciò scivolare fino al caricatore, afferrando il coperchio con le mani corazzate. Riuscì ad alzarne un angolo fino a quando la grappa poté insinuarsi e sollevarlo: poi abbassò le mani e le rialzò di nuovo di scatto.

Il direttore osservò i suoi movimenti, poi rigirò la cassa: il magma ne usciva a fiumi, ma dentro c'era qualcosa d'altro che luccicava.

«Cominci a pregare. Doc!» Palmer accostò la cassa di piombo al fianco della ruspa e uscì di nuovo dal portello, lasciando entrare il calore spietato e le radiazioni.

Ma Ferrel non se ne preoccupò: lo seguì, chinandosi sulla cassa per aiutare gli altri due a estrarre il corpo di un uomo enorme chiuso in una Tomlin a cinque scudi! Bene o male, tirarono fuori quei duecentocinquanta chili e li issarono sul cingolo, e poi dentro l'abitacolo che era a malapena abbastanza grande per contenerli tutti. L'operaio entrò, chiuse il portello e crollò bocconi, privo di sensi.

«Non badi a lui... guardi come sta Jorgenson!» La voce di Palmer era appesantita dalla reazione: tuttavia, il direttore fece girare la ruspa e la lanciò avanti a tutta velocità, noncurante dei rischi. Stranamente, la macchina passò attraverso la massa di macerie più rapidamente di quanto avesse percorso il tratto sgombro.

Ferrel svitò la lamina anteriore dell'armatura di Jorgenson, più in fretta che poté, sebbene sapesse già che quell'uomo era ancora miracolosamente vivo... i cadaveri non sussultano con tanta forza da muovere una tuta da centottanta chili. Un'occhiata frettolosa, mentre ripiegavano oltre le macerie del capannone, gli mostrò che gli uomini stavano già cominciando a piazzare l'equipaggiamento per riprendere a smorzare la reazione atomica. Ma la lamina anteriore finalmente si staccò, e Ferrel distolse lo sguardo dagli uomini senza notare i dettagli, per tagliare gli indumenti e praticare le iniezioni indispensabili: prima il curaro, poi la neo-eroina, e poi di nuovo il curaro, sebbene non osasse somministrare la quantità che appariva necessaria. Non poteva fare altro, fino a quando non avessero estratto l'uomo dall'armatura. Si rivolse all'operaio che s'era già sollevato a sedere, appoggiato contro la spalliera del sedile di guida.

«Non è niente di grave, Doc», riuscì a dire quello. «Niente convulsioni, soltanto ustioni e quel caldo maledetto. Jorgenson?»

«È vivo, almeno», rispose Palmer con un certo sollievo. La ruspa si fermò e Ferrel vide Sue Brown che si staccava da un camion e correva verso di loro. «Si tolga la tuta, si faccia medicare le ustioni, e poi vada in ufficio, dove troverà l'assegno».

«Un assegno da cinquantamila?» La voce debole assunse un tono dubbioso.

«Cinquantamila più il triplo del compenso al minuto: e magari ci aggiungeremo anche una medaglia o una bottiglia di scotch. Ehi, voialtri, dateci una mano».

Ferrel si era tolto la tuta con l'aiuto di Sue Brown: indugiò solo il tempo necessario per respirare una boccata d'aria pura e fresca, prima di avviarsi verso il camion. Quando si avvicinò, Jenkins balzò giù, ordinando a un gruppo di uomini di caricare le due barelle sull'ambulanza e rivolgendo un cenno convulso a Ferrel. «Dato che avevamo equipaggiato il camion, abbiamo deciso di venir qui per curare gli uomini sul posto... Io e Sue li abbiamo sistemati alla meglio, per il momento, per poterci occupare subito di Jorgenson. È ancora vivo?»

«Per miracolo. Resti qui, Jenkins. finché avrà finito con gli uomini che escono dalle macerie: poi cercheremo di farla riposare un pò».

I tre robusti assistenti volontari che portavano Jorgenson lo posarono sul tavolo operatorio e cominciarono a togliergli l'ingombrante armatura mentre il camion si metteva in moto. I guanti puliti uscirono da un piccolo sterilizzatore e i due dottori si misero subito al lavoro, medicando la carne orribilmente ustionata e cercando di individuare e di asportare i frammenti più grossi di materiale radioattivo.

«È inutile». Doc si fermò e scosse la testa. «È dappertutto, probabilmente persino nelle ossa, in certi punti. Dovremo passarlo al filtro per tirar fuori tutto!»

Palmer stava fissando quel corpo devastato con l'espressione nauseata del profano. «Può rimetterlo in sesto, Ferrel?»

«Possiamo tentare, ecco tutto. La sola spiegazione che posso dare per il fatto che è ancora vivo è che la cassa di piombo deve essere rimasta sopra il materiale radioattivo fino a poco tempo fa... pochissimo tempo fa... e la sostanza è entrata solo quando la cassa è affondata. Adesso è praticamente disidratato, ma non avrebbe potuto sudare tanto da non morire per il calore se fosse rimasto sotto il magma anche per un'ora... tuta isolante o no». C'era ammirazione negli occhi di Doc, mentre scrutava la figura gigantesca dell'uomo. «È un duro; altrimenti sarebbe morto di sfinimento, anche chiuso nella tuta e nella cassa, dopo l'inizio delle convulsioni. E c'è mancato poco, del resto. Fino a che non troveremo un modo di estrargli dal corpo quella roba, non possiamo permettere di lasciare che l'effetto del curaro si esaurisca... ci vorrà tempo. È meglio fargli un'altra endovenosa di acqua e zucchero, Jenkins. Poi, se riusciremo a salvarlo, Palmer, direi che ci sono cinquanta probabilità su cento che tutta questa storia non lo abbia fatto impazzire».

Il camion s'era fermato; gli uomini presero la barella e la portarono nell'infermeria, mentre Jenkins finiva l'iniezione. Il giovane medico li precedette, ma Doc si soffermò sulla soglia, prese la sigaretta di Palmer, trasse una lunga boccata, e lasciò che gli altri lo precedessero.

«Allegro!» Il direttore accese un'altra sigaretta con il mozzicone, piegando le spalle. «Ho cercato di farmi venire in mente qualcuno che possa aiutarci, Doc, ma non esiste... in nessun posto. Adesso sono sicuro, dopo essere entrato là dentro, che Hoke non potrebbe farcela. Kellar, se fosse ancora vivo, probabilmente troverebbe la soluzione dopo tre occhiate... aveva l'istinto e il genio, era il migliore specialista mai esistito, anche se i suoi trucchi rischiavano di sottrarci il nostro lavoro e di dargli tutti i vantaggi. Ma... bene, adesso c'è Jorgenson... o si riprende, oppure...»

Il grido frenetico di Jenkins li raggiunse all'improvviso. «Doc! Jorgenson è morto! Ha smesso di respirare!»

Doc corse nell'infermeria, seguito dal pallidissimo Palmer.

 

IV.

 

La Dodd stava praticando la respirazione artificiale e Jenkins aveva in mano la maschera dell'ossigeno, sistemandola sulla faccia di Jorgenson, quando Ferrel raggiunse il tavolo operatorio. Afferrò il polso del ferito, che già prima batteva molto debolmente; lo sentì pulsare lievemente una volta, poi arrestarsi per un periodo tre volte più lungo del normale, e poi pulsare ancora una volta e quindi arrestarsi completamente. «Adrenalina!»

«Gliel'ho già iniettata nel cuore, Doc! E anche la cardiacina!» La voce del giovane era prossima all'isteria, ma evidentemente Palmer era ancora più isterico di lui.

«Doc, deve...»

«Fuori di qui!» Le mani di Ferrel assunsero una vita propria, afferrarono gli strumenti, strapparono le bende dal petto dell'uomo e cominciarono una lotta contro il tempo nella quale il tempo aveva tutti i vantaggi. Non era un intervento da chirurgo, bensì da macellaio: le ossa che Doc tagliava implacabilmente a colpi rabbiosi non si sarebbero mai saldate alla perfezione, dopo quel trattamento. Ma adesso Ferrel non poteva preoccuparsi dei dettagli.

Sollevò di scatto la carne e le costole che aveva tranciato. «Arresti l'emorragia, Jenkins!» Poi affondò le mani nella cavità toracica, cercando uno spazio tra le mani della Dodd e di Jenkins e, con incredibile delicatezza, trovò il cuore e cominciò a praticare il massaggio abile e preciso di un uomo che conosceva ogni funzione di quell'organo vitale. Premere qui, là, lasciar andare, premere ancora... calma, senza precipitare le cose! Era inutile cercare di rimetterlo in moto febbrilmente come esigeva la sua ansia. L'ossigeno puro entrava nei polmoni e il cuore poteva lavorare di meno, senza rischi. Avanti, con regolarità, un battito al secondo, sessanta al minuto.

Era trascorso circa mezzo minuto dall'attimo in cui il cuore s'era fermato, quando il massaggio ricominciò a far circolare il sangue: un tempo troppo breve per causare lesioni al cervello, il primo organo che risentiva dell'arresto della circolazione. Ora, se il cuore avesse ripreso a battere da solo entro un tempo ragionevole, sarebbe stato possibile sconfiggere la morte. Per quanto? Ferrel non lo sapeva. Gli avevano insegnato che erano dieci minuti, quando studiava medicina, più di una volta c'era stato un caso di un arresto cardiaco di venti minuti, e quando lui era interno il primato era salito a poco più di un ora, e resisteva ancora: ma quello era stato un caso eccezionale. Jorgenson, grazie al cielo, era un uomo normalmente sano e vigoroso, e il suo organismo era sempre stato in condizioni eccellenti: ma dopo la tortura di quelle lunghe ore, con le sostanze radioattive, l'anestetico e il curaro che lottavano contro di lui, era necessario un altro miracolo per tenerlo in vita.

Premere, massaggiare, rilassare, senza affrettarsi troppo. Ecco! Per un secondo, le dita di Ferrel sentirono un palpito lievissimo, poi un altro, ma si arrestò. Tuttavia, finché l'organo dava quei segni, c'era speranza, a meno che le sue dita si stancassero troppo e lui rovinasse tutto prima del momento in cui avrebbe potuto lasciare che il cuore continuasse da sé.

«Jenkins!»

«Sì, signore!»

«Ha mai fatto un massaggio cardiaco?»

«Mi sono esercitato all'università, signore, su un modello, ma mai su una persona. Oh, un cane nel corso di dissezione, per cinque minuti. Io... non credo che possa fidarsi di me, Doc».

«Forse sarò costretto a fidarmi. Se l'ha fatto per cinque minuti con un cane, probabilmente può farlo con un uomo. Lei sa che cosa è in gioco... ha visto il convertitore e sa quel che sta succedendo».

Jenkins annui, teso, come prima. «Lo so... è per questo che non può fidarsi di me. Le avevo detto che l'avrei avvertita quando sarei stato sul punto di crollare... beh. ormai ci sono maledettamente vicino!»

Un uomo era in grado di riconoscere la propria debolezza, se era quasi finito? Doc non lo sapeva: sospettava che il fatto stesso che quel ragazzo si rendeva conto dello stato dei suoi nervi accelerasse il crollo; ma Jenkins era un tipo strano... aveva i nervi tesi, ma dimostrava una ferma sicurezza, sotto il fuoco, che pochi uomini più vecchi di lui avrebbero saputo eguagliare. Se avesse dovuto servirsi di lui. lo avrebbe fatto: non c'erano altre soluzioni.

Doc si sentiva già le dita indolenzite... non ancora stanche, ma quasi. Ancora pochi minuti, e avrebbe dovuto smettere. Ci fu un altro palpito... due... tre! Poi si arrestò. Doveva esserci un'altra soluzione: era impossibile continuare per tutto il tempo probabilmente necessario, anche se lui e Jenkins si fossero dati il cambio. Soltanto Michel, al Mayo, avrebbe potuto... Il Mayo! Se ci fossero arrivali in tempo, la soluzione si sarebbe trovata nel metodo di cui Michel aveva dato dimostrazione durante l'ultimo congresso medico.

«Jenkins, chiami il Mayo... dovrà farsi dare il benestare da Palmer, immagino... chieda di Kubelik, e porti il telefono qui, in modo che gli possa parlare!»

Ferrel senti la voce di Jenkins. dapprima abbastanza calma, e poi carica di un'intensità che avrebbe creduto impossibile in quel ragazzo. La Dodd gli lanciò un'occhiata e un sorriso cupo, mentre continuava con la respirazione: niente poteva farla arrossire, anche se quel linguaggio avrebbe dovuto riuscirci.

Il ragazzo ritornò a precipizio. «Niente da fare, Doc! Palmer non si trova... e quella strega del centralino non vuol sentir ragioni».

Doc si studiò le mani in silenzio, pensieroso, poi desistette; non poteva sperare di continuare a resistere mentre mandava fuori il ragazzo. «Bene, Jenkins, allora dovrà continuare lei. Con calma, lentamente, metta le dita sulle mie. Ora, ha afferrato il movimento? Adagio, non precipiti le cose. Ce la farà... deve farcela! Finora se l'è cavata meglio di quanto avessi il diritto di sperare, e non deve dubitare di se stesso. Ecco, ci siamo?»

«Ci siamo, Doc. Tenterà, ma per amor del cielo, qualunque cosa abbia intenzione di fare, torni presto! Non mentivo, quando ho detto che sto per crollare! È meglio che sostituisca la Dodd con la Meyers e faccia richiamare qui Sue: lei è il miglior tonico per i nervi che io conosca».

«Allora la richiami, infermiera Dodd». Ferrel prese una siringa, la riempi rapidamente d'acqua alla quale una goccia di un altro liquido conferiva un colore giallo bruniccio, e obbligò le sue gambe vecchie e stanche a muoversi a un trotto ragionevolmente rapido. Uscì dalla porta laterale e si diresse verso le Comunicazioni. Forse la centralinista era cocciuta, ma c'era sempre un modo per convincere la gente.

Ferrel, però, non aveva previsto di trovare una guardia davanti alle Comunicazioni. «Alt!»

«È questione di vita o di morte. Sono un medico».

«Non può entrare... sono gli ordini». Evidentemente, la minaccia della baionetta non bastava. L'uomo imbracciò il fucile e sporse il mento con l'ostinazione dell'autorità e dell'obbedienza agli ordini ricevuti. «Qui non c'è nessuno che sta male. E ci sono telefoni in abbondanza altrove. Torni indietro... e subito!»

Doc avanzò di un passo e senti un lieve «clic», lo scatto della sicurezza. Quel maledetto stupido faceva sul serio. Alzando le spalle, Ferrel indietreggiò, e puntò l'ago della siringa verso la faccia della guardia. «Mai visto una di queste sprizzare curaro? Può raggiungerla prima che la sua pallottola arrivi a segno!»

«Curaro?» Gli occhi della guardia fissarono l'ago, con un'espressione di dubbio. «È quella roba che mettono sulle frecce e che ammazza la gente, no?»

«È... veleno di cobra, capisce? Una goccia sulla pelle, e lei morirà in dieci secondi». Entrambe le affermazioni erano menzogne spudorate, ma Doc contava sull'ignoranza superstiziosa che circondava i veleni. «Questo piccolo ago può spruzzarla a dovere, e magari sarà una morte rapida, ma non piacevole. Vuole abbassare il fucile?»

Un soldato di professione avrebbe sparato, forse, ma l'uomo della milizia preferì non correre rischi. Abbassò impacciato il fucile, fissando l'ago, poi allontanò l'arma con un calcio, al cenno di Doc. Ferrel si avvicinò, tenendo la siringa, e l'uomo indietreggiò, lasciando che raccogliesse il fucile mentre passava, per evitare di prendersi un proiettile nella schiena. Quanto tempo perso! Ma Ferrel conosceva quel piccolo edificio, e si precipitò subito al centralino.

«In piedi!» Ferrel parlò alle spalle della ragazza, e quando lei si voltò vide che impugnava il fucile con una mano, e l'ago della siringa quasi le toccava la gola. «Questa è piena di curaro, un veleno mortale, ed è troppo importante che io faccia una telefonata perché mi preoccupi del mio giuramento professionale, in questo momento, ragazza mia. In piedi. E non tocchi le spine! Così va bene; adesso si metta là... faccia a terra, incroci le mani dietro la schiena e si stringa le caviglie... così! Se si muove, non si muoverà ancora per molto!»

I film di gangster che Doc aveva visto avevano una loro utilità. La ragazza era terrorizzata e docile. Ma forse non al punto di non imbrogliare volutamente la telefonata: doveva arrangiarsi da solo. Maledizione, le spie rosse erano le linee esterne, ma quale spina...? Doveva provare quella interna, sembrava più logico... l'aveva visto fare diverse volte, ma non riusciva a ricordare. Adesso, bisognava far scattare uno di quegli interruttori... uh-uh, dall'altra parte. Lo squillo del segnale gli assicurò che ce l'aveva fatta. Fece in fretta il numero della centrale.

«È un caso urgentissimo. Qui è Walnut, 7654: voglio un'interurbana. Dottor Kubelik, Mayo's Hospital, Rochester, Minnesota. Se non c'è Kubelik, parlerò con la persona che risponderà dal suo reparto. È urgentissimo».

«Bene, signore». Per fortuna, di solito le centraliniste delle interurbane erano efficienti. Vi furono i segnali ripetuti e gli scatti dei collegamenti, e poi la risposta del centralino dell'ospedale, altro tempo perso, e poi sullo schermo apparve una faccia. Ma non era Kubelik: era un uomo molto più giovane.

Ferrel non stette a presentarsi. «Ho un caso d'emergenza qui, ed è indispensabile salvare quest'uomo, e non posso riuscirci senza la macchina del dottor Kubelik. Lui mi conosce, se è lì... sono Ferrel, l'ho incontrato al congresso, mi ha mostrato come funzionava l'apparecchio».

«Kubelik non è ancora arrivato, dottor Ferrel. Io sono il suo assistente. Ma se si riferisce all'eccitatore cuore-polmoni, è già incassato per partire per Harvard domattina. Hanno un caso grave, là, e potrebbero averne bisogno».

«Non quanto me».

«Dovrà chiamare... Aspetti un momento, dottor Ferrel. Adesso mi sembra di ricordare il suo nome. Lei non lavora alla National Atomic?»

Doc annui. «Infatti. Ora, per la macchina, se può evitare le formalità...»

L'uomo sullo schermo annui, con aria improvvisamente decisa e una vaga sfumatura di un'altra espressione. «Gliela manderemo immediatamente, Ferrel. Lì avete un campo dove possa atterrare un aereo?»

«Il più vicino è a tre miglia, ma manderemo immediatamente un camion. Quanto ci vorrà?»

«Con il camion, ci vorrebbe troppo tempo, se ne ha bisogno urgente, Ferrel. Darò disposizioni per un trasbordo in volo dal nostro aereo speciale e un elicottero, e lo farò consegnare dove vorrà lei. Più o meno... Uhm, caricarlo sull'aereo, coprire circa duecento miglia, trasbordare... mezz'ora di tempo è quanto posso prometterle».

«Faccia atterrare l'elicottero nello spiazzo a sud dell'infermeria. Dall'alto si vede benissimo. Grazie!»

«Aspetti, dottor Ferrel!» Il giovane lo trattenne. «Ce la farà a usare la macchina, quando l'avrà? Non è molto semplice».

«Kubelik mi ha dato una dimostrazione e sono abituato ai lavori complicati. Dovrò correre il rischio. Ci vorrebbe troppo tempo per fare venire qui Kubelik, no?»

«Probabilmente. Okay ho ricevuto la risposta per telescrivente dall'ufficio spedizioni: stanno per caricare la macchina sull'aereo. Le auguro buona fortuna!»

Ferrel lo ringraziò con un cenno, pensosamente. Un servizio così efficiente era ben gradito: ma non era molto tranquillizzante sapere che bastava nominare la National Atomic per provocare un voltafaccia del genere. A quanto pareva, le voci correvano, e in fretta, nonostante gli sforzi di Palmer. Buon Dio, ma cosa stava succedendo, lì? Lui era stato troppo indaffarato per pensarci, ma... bene, almeno era servito per ottenere l'eccitatore, e questo era già un sollievo.

La guardia, incerta, stava per andare in cerca di rinforzi quando lui uscì, e Ferrel si rese conto che la telefonata apparentemente interminabile era durata in realtà pochissimo. Buttò il fucile ben lontano dall'uomo e tornò correndo verso l'infermeria, chiedendosi come se l'era cavata Jenkins... doveva essere andato tutto bene!

Jenkins non c'era accanto al corpo di Jorgenson: c'era Sue Brown, invece, con gli occhi pieni di lacrime e il volto pallido e contratto. Lei alzò gli occhi, scosse la testa quando Ferrel fece per avvicinarsi, e continuò a massaggiare il cuore del ferito.

«Jenkins è crollato?»

«Sciocchezze! Questo è un lavoro per donne, dottor Ferrel, e io gli ho dato il cambio, ecco tutto. Voi uomini cercate di usare la forza bruta per tutta la vita e poi vi meravigliate se una donna riesce a fare un lavoro delicato, nel quale i muscoli sono più un intralcio che altro. L'ho buttato fuori e l'ho sostituito, ecco tutto». Ma aveva la voce incrinata, e la Meyers sembrava troppo intenta a continuare la respirazione artificiale.

«Salve, Doc!» Questa era la voce di Blake. «Si tolga di lì. Quando la dottoressa Brown avrà bisogno di aiuto, ci sono io. Ho dormito come un sasso tutta notte, dalle quattro del mattino in poi. Non ho sentito il telefono, e non ho saputo quello che era successo fino a quando mi sono presentato al cancello. Vada a riposare».

Ferrel sbuffò di sollievo. Forse Blake era sbronzo fradicio quando era arrivato finalmente a casa, ma la sua vitalità animale aveva assorbito l'ubriacatura senza lasciare tracce. L'unico cambiamento era l'assenza del solito sogghigno baldanzoso, mentre Blake si affiancava a Sue Brown per controllare Jorgenson. «Grazie a Dio c'è qui lei, Blake. Come va il ferito?»

La voce di Sue Brown rispose in tono monotono, ritmato dal movimento delle dita. «Ogni tanto il cuore dà segni di ripresa, ma non dura. Tuttavia, a quanto posso dire io, non è peggiorato».

«Bene. Se riusciamo a tenerlo in vita per un'altra mezz'ora, potremo lasciare fare a una macchina. Dov'è Jenkins?»

«Una macchina? Oh, l'eccitatore di Kubelik. naturalmente. Ci stava lavorando quando io ero là. Terremo in vita Jorgenson fino all'arrivo dell'eccitatore, dottor Ferrel».

«Dov'è Jenkins?» ripeté bruscamente Doc, quando lei tacque senza rispondere alla prima domanda.

Blake indicò l'ufficio di Ferrel. La porta era chiusa. «È là. Ma lo lasci stare, Doc. Ha visto tutto, e lui è sconvolto. È un bravo ragazzo, ma è soltanto un ragazzo, e un inferno simile può stravolgere chiunque».

«Lo so benissimo». Doc si avviò verso l'ufficio, più che altro per fumare una sigaretta. La vista della faccia riposata di Blake era un'isola rassicurante in quel mare di stanchezza e di nervosismo. «Non si preoccupi, dottoressa Brown, non ho intenzione di rimproverarlo, quindi non ha bisogno di difendere suo marito. È stata colpa mia perché non l'ho ascoltato».

Sue Brown gli lanciò una breve occhiata di patetica gratitudine, e Ferrel si vergognò come un ladro del tono burbero con cui aveva reagito in un primo momento all'assenza di Jenkins. Ma se quella storia fosse andata avanti un pezzo, si sarebbero ridotti tutti in condizioni peggiori del ragazzo. Quando apri la porta, Jenkins gli voltava le spalle. Era immobile, raggomitolato e non alzò la testa dalle braccia quando Ferrel gli posò una mano sulla spalla. La voce era soffocata e lontana.

«Sono crollato, Doc... completamente. Non ce la facevo più! Stavo li, e forse Jorgenson poteva morire perché non riuscivo a controllarmi, e tutto lo stabilimento poteva esplodere, per colpa mia. Continuavo a ripetermi che stavo benone, che potevo continuare, e poi sono crollato. Mi sono messo a gridare come un bambino! Il dottor Jenkins... specialista di nervi!»

«Già... Su, beva questo, oppure devo tapparle il naso e versarglielo in gola?» Era una psicologia molto rozza, ma ottenne il suo scopo, e Doc prese il bicchiere, attese che l'altro avesse bevuto e gli passò una sigaretta prima di sprofondare nella sua poltrona. «Lei mi aveva avvisato, Jenkins, e io ho rischiato sotto la mia responsabilità quindi non c'è niente da ridire. Ma vorrei farle un paio di domande».

«Si accomodi... che differenza fa?» Jenkins si era un pò ripreso, evidentemente, a giudicare dal tono di sfida che si insinuava nella sua voce.

«Sapeva che la dottoressa Brown era in grado di fare quel lavoro? E ha tolto le mani prima che lei potesse sostituirla?»

«Sue mi ha detto che poteva farlo. Prima non l'avevo mai saputo. Per il resto... non so. Credo... si, Doc, Sue aveva messo le mani sulle mie. Ma...»

Ferrel annui, soddisfatto della propria intuizione. «L'immaginavo. Lei non è crollato, come dice, fino a quando la sua mente non ha avuto la certezza che non c'era pericolo... e ha semplicemente passato il compito a sua moglie. Secondo questa definizione, sto crollando anch'io. Me ne sto qui seduto a fumare e a parlare con lei, mentre là fuori c'è un uomo che ha bisogno di cure. Il fatto che le riceva dagli altri due, uno praticamente fresco e riposato e l'altra un pò meno stanca di noi. non c'entra affatto, vero?»

«Ma non è andata così, Doc. Non chiedo l'approvazione di nessuno».

«E io non gliela sto dando, figliolo. D'accordo, s'è messo a. gridare... perché no? Non ha rovinato niente. Io ho brontolato con sua moglie quando sono entrato, per la stessa ragione... stanchezza, nervi tesi. Se adesso andassi a sostituirli, probabilmente urlerei anch'io o comincierei a mordermi la lingua... i nervi hanno bisogno di uno sfogo: fisicamente non serve a nulla, ma c'è il bisogno psicologico». Il giovane non era convinto, e Doc si assestò sulla poltrona, fissandolo pensieroso. «Si è mai domandato perché sono qui?»

«No, signore».

«Bene, se lo domandi. Ventisette anni fa, quando avevo all'incirca la sua età, non c'era un chirurgo in questo paese — o in tutto il mondo, d'altra parte — che avesse la mia reputazione: ogni tipo di chirurgia... cerebrale, tutto quanto. Ancora oggi usano alcune delle mie tecniche... uhm-uhm, pensavo che l'avrebbe ricordato, quando l'avesse colpita l'associazione dei nomi. Allora avevo un'altra moglie, Jenkins, e dovevamo avere un bambino. Un tumore al cervello... dovetti operare io: nessun altro era in grado di farlo. Lo feci, in qualche modo, ma uscii dalla sala operatoria stordito, e solo tre giorni dopo mi dissero che lei era morta. Non era stata colpa mia... ora lo so. Ma allora non potevo rendermene conto.

«Così, cercai di diventare medico generico. Basta con la chirurgia! E siccome ero un discreto diagnostico, diversamente da tanti altri chirurghi, almeno mi guadagnavo da vivere. Poi, quando venne fondata questa compagnia, presentai la domanda, ed ebbi il posto. Avevo ancora una certa fama. Era un campo nuovo, che richiedeva studi e ricerche, e più o meno la capacità di parecchie specializzazioni oltre a quella di medico generico, e quindi mi teneva abbastanza occupato per aiutarmi a superare la fobia per la chirurgia. In confronto a me, lei non sa neppure cosa vogliano dire i nervi, cosa voglia dire crollare. Quel piccolo grido è stato un incidente da nulla».

 

Jenkins non fece commenti, ma accese la sigaretta che teneva tra le dita. Ferrel sprofondò ancora di più nella poltrona, sapendo che l'avrebbero chiamato se ci fosse stato bisogno di lui. Era un sollievo distogliere almeno in parte il pensiero da Jorgenson. «È difficile trovare un uomo adatto per questo lavoro, Jenkins. Richiede troppa abilità in troppi campi, anche se è retribuito bene. Abbiamo esaminato parecchi candidati prima di scegliere lei, e non mi pento della decisione. Per la verità, lei è più adatto per questo lavoro di quanto lo fosse Blake... il suo curriculum sembrava indicare che si fosse preparato apposta per questo tipo di attività».

«È così».

«Uhm-m-m», Quella era la risposta che Doc meno si aspettava; a quanto ne sapeva lui, nessuno si preparava apposta per venire a lavorare all'Atomic... di solito si presentavano candidati dopo aver confrontato i loro introiti di un anno con lo stipendio pagato dalla National. «Allora sapeva cos'era necessario, e si è buttato anima e corpo. Le dispiace se le domando perché?»

Jenkins scrollò le spalle. «Perché no? Franchezza per franchezza. È un pò complicato, ma non ci vuole molto a raccontare l'essenziale. Mio padre aveva uno stabilimento atomico... e maledettamente efficiente. Doc. anche se non era grande come la National. Io ci lavoravo, quando avevo quindici anni; studiai per due anni ingegneria atomica all'università con tutte le intenzioni di continuare il lavoro di mio padre. Sue... le stavo dietro, e a quei tempi il denaro non ci mancava: ma non è stato per questo che mi ha sposato. Non l'avevo mai capito... aveva avuto una vita abbastanza difficile, ma aveva già un impiego al Mayo, mentre io ero soltanto un ragazzo. Comunque...

«Il giorno che tornammo dalla luna di miele, mio padre ottenne un grosso contratto per un nuovo processo che avevamo ideato. C'era voluto un pò per ottenerlo, ma aveva l'equipaggiamento e cominciò... Secondo me, uno dei comandi si guastò per un difetto di fabbricazione: il processo era giusto. L'avevamo ripetuto troppe volte per non sapere come doveva andare. Ma quando fu chiarita la situazione patrimoniale, io fui costretto a rinunciare all'idea di una laurea in ingegneria atomica, e Sue dovette tornare a lavorare all'ospedale. I corsi atomici costano parecchio. Poi uno dei medici che conoscevano Sue mi fece avere una borsa di studio in medicina che quasi bastò a pagare le spese, e così io scelsi quello che veniva subito dopo a ciò che desideravo veramente».

«La National e una delle sue concorrenti più grosse — se può chiamarla così — possono conferire lauree in ingegneria atomica.» disse Doc. «Era un campo ancora troppo nuovo perché ci fossero corsi regolari all'università, e non esistevano insegnanti migliori di uomini come Palmer, Hokusai e Jorgenson. E per giunta, le pagano uno stipendio mentre impara».

«Uhm. In questo modo ci voglioni dieci anni, e lo stipendio basta appena per uno scapolo. No. avevo sposato Sue con l'intenzione che non fosse più costretta a lavorare; bene, ha lavorato fino a quando io ho finito l'internato, ma sapevo che se avessi avuto il posto qui avrei potuto mantenerla. Come tecnico atomico in attesa di diventare ingegnere, non avrei avuto prospettive molto rosee. Adesso riusciamo a mettere da parte un pò di denaro, e forse un giorno potrò ritentare... Doc, perché continua a parlare con me? Per tirarmi fuori dalla crisi?»

Ferrel sorrise al ragazzo. «Per nient'altro, figliolo; ma ero incuriosito. E ha funzionato. Adesso si sente bene, no?»

«Quasi, a parte quello che sta succedendo là fuori... ho visto anche troppo, dal camion. Oh, magari mi farebbe comodo dormire un pò, ma adesso mi sono ripreso».

«Bene». Ferrel aveva approfittato quasi quanto Jenkins di quella lunga conversazione, che lo aveva riposato più di quanto avrebbe potuto riposare stando a rimuginare tutto solo. «Andiamo a vedere come se la cavano con Jorgenson? Uh, adesso che ci penso, che ne è di Hoke?»

«Hoke? Oh, è nel mio ufficio a fare calcoli con carta e matita perché non gli abbiamo permesso di tornar fuori. Mi domandavo...»

«Qualcosa che ha attinenza con l'ingegneria atomica... E allora vada a parlare con lui; è un brav'uomo e non la caccerà via. A quanto pare nessun altro, qui, sospettava questa faccenda dell'Isotopo R, e forse lei potrà fornirgli una traccia nuova. Adesso che ci sono Blake e le infermiere e gli uomini sono tutti fuori dalle macerie del capannone, esclusi quelli con le ruspe corazzate, non potrebbe essermi di grande aiuto».

Ferrel si sentiva quasi in pace con il mondo, più di quanto si fosse sentito dopo la prima chiamata di Palmer, mentre guardava Jenkins che si dirigeva verso il suo ufficio. E l'occhiata che Sue Brown lanciò prima al ragazzo e poi a lui non lo fece sentire peggio. Quella ragazza riusciva a dire con gli occhi molto più di quanto riuscissero a dire con la bocca tante altre donne! Ferrel si avvicinò al tavolo operatorio dove Blake stava continuando il massaggio cardiaco mentre una delle infermiere appena arrivate provvedeva alla respirazione e guardava con nostalgia il polmone meccanico. Non era possibile usarlo, in quel caso, perché era necessario tenere scoperto il torace di Jorgenson, per agire sul cuore.

Blake alzò la testa, preoccupato. «Non va niente bene, Doc. Da qualche minuto sta precipitando. Stavo per chiamarla. Io...»

Le ultime parole furono soffocate da un rombo che scendeva sopra di loro, il suono caratteristico dei pesanti Sikorsky da trasporto con le pale modificate. Ferrel annui in risposta all'occhiata interrogativa di Sue Brown, ma si sforzò di non gridare mentre posava le mani sopra quelle di Blake e proseguiva il compito delicato di stimolare l'azione cardiaca naturale. Mentre Blake ritraeva le mani, il rombo si arrestò, e Ferrel gli accennò di uscire.

«Gli vada incontro e faccia portare qui l'apparecchio... si faccia aiutare da tutti gli uomini che vede in giro, o mandi Jones a chiamarli. La macchina è un modello sperimentale, piuttosto ingombrante. Deve pesare tre o quattrocento chili».

«Andrò a chiamarli io... Jones sta dormendo».

Il cuore di Jorgenson non palpitava sotto le dita esperte di Doc, sebbene lui si sforzasse di fare del suo meglio. «Da quanto tempo non dà segni di vita?»

«Da circa quattro minuti, ormai. Doc. c'è ancora una possibilità?»

«È difficile dirlo. Porti qui la macchina, comunque, e speriamo».

Ma il cuore rifiutava di reagire, sebbene la pressione continuasse a far circolare il sangue e impedisse, se non altro, l'asfissia delle cellule. Delicatamente, scrupolosamente. Ferrel concentrò la mente nelle proprie dita, sforzandosi di ottenere un lieve fremito. Forse ci riuscì, a un certo punto: ma non poteva esserne sicuro. Tutto dipendeva dalla rapidità con cui avrebbero messo in funzione la macchina, e dal tempo che un uomo poteva sopravvivere esclusivamente grazie alla manipolazione. Quel panico lare non era mai stato chiarito.

Ma era certo che la scintilla della vita continuava ad affievolirsi in Jorgenson, mentre là fuori quell'inferno creato dagli uomini progrediva costantemente, divorando i minuti che mancavano per trasformarsi nell'Isotopo di Mahler. Di solito, Doc era agnostico; ma ora, inconsciamente, ritornò alla semplice fede della sua infanzia, e senti la Brown fare eco alla preghiera che gli spuntava sulle labbra. La lancetta dei secondi, sul cronometro che gli stava davanti, girò e girò e girò ancora prima che Ferrel udisse i passi degli uomini all'entrata posteriore. E ancora, il cuore sotto le sue dita non fremeva. Quanto tempo gli restava per l'operazione difficile e sconosciuta...?

Un'occhiata gli rivelò gli innumerevoli fili di platino da collegare ai nervi che governavano il cuore e i polmoni di Jorgenson tutti meticolosamente numerati, eppure quasi terrificanti nella loro complessità. Se avesse commesso un errore, c'era la certezza che non avrebbe avuto il tempo per un secondo tentativo; se le sue dita avessero tremato, se i suoi occhi stanchi si fossero appannati nel momento inopportuno, Jorgenson non avrebbe potuto risolvere il problema. Jorgenson sarebbe morto!

 

V.

 

«Continui lei il massaggio dottoressa Brown». ordinò Ferrel. «E prosegua qualunque cosa succeda. Infermiera Dodd, mi assista e stia attenta ai miei segnali. Se funziona, dopo potremo riposarci tutti».

Ferrel si chiese cupo, con quella parte della sua mente che continuava a funzionare da sola, se poteva giustificare ciò di cui s'era vantato con Jenkins. di essere stato il più grande chirurgo del mondo; un tempo era stato vero, lo sapeva senza bisogno di falsa modestia, ma erano trascorsi tanti anni, e quello che doveva svolgere adesso era un lavoro diabolico. Era rimasto a guardare, affascinato, mentre Kubelik dava una dimostrazione su un cane, al congresso, e ricordava ancora bene quei dettagli, e le sue mani erano ancora efficienti. Ma per essere un grande chirurgo è necessario qualcosa di più, e Ferrel si domandava se possedeva ancora quella dote.

Poi. mentre le sue dita compivano i movimenti microscopici e la Dodd diventava un altro paio di mani, Ferrel smise di interrogarsi. Qualunque cosa fosse, sentiva quella capacità in se stesso, e gli dava una gioia pura, che trascendeva l'urgenza del suo compito. Probabilmente era l'ultima volta che l'avrebbe provata, e se l'operazione fosse riuscita, avrebbe potuto accantonarla insieme ai pochi tesori mentali rimastigli dai successi di un tempo. L'uomo sul tavolo operatorio cessò di essere Jorgenson, l'infermeria piena di macchinari ridiventò la sala operatoria dello stesso Mayo che aveva prodotto la Brown e quella nuova, strana macchina, e le sue dita ridivennero quelle del Grande Ferrel, il giovane prodigio del Mayo, capace di fare l'impossibile per due volte prima di colazione senza neppure batter ciglio.

In parte, i suoi sentimenti erano rivolti alla macchina. Massiccia, sgraziata, con varie parti che sporgevano in disordine, sembrava più uno strumento di tortura dell'Inquisizione che un prodotto scientifico, ma funzionava... lui l'aveva vista funzionare. In quella massa caotica di pezzi assortiti, minuscole correnti venivano generate e modulate per riversarsi nel cuore e nei polmoni e sostituire gli ordini di un cervello che non funzionava più e non riusciva a farsi obbedire, per coordinare la respirazione e il battito cardiaco a seconda delle necessità. Era un prodotto geniale della chirurgia e dell'elettronica: ma per quanto l'eccitatore fosse meraviglioso, era nettamente secondario rispetto alla tecnica che Kubelik aveva realizzato per scegliere e collegare soltanto i nervi e i fasci nervosi necessari e per portare qualcosa di pressoché impossibile entro i limiti della possibilità chirurgica.

Sue Brown l'interruppe, e quell'interruzione nel mezzo d'una operazione del genere indicava chiaramente la tensione che la dominava. «Il cuore ha palpitato leggermente, dottor Ferrel».

Ferrel annui, per nulla disturbato dall'interruzione. Sebbene moltissimi chirurghi s'infastidissero nel sentir parlare, nel suo piccolo staff quella era una cosa abituale, e lui riusciva sempre a riservarle una parte della sua mente, mentre il resto continuava senza accorgersene. «Bene. Questo ci dà almeno un vantaggio doppio rispetto a quello che prevedevo».

Le sue mani continuarono a lavorare: prima sul cuore che rappresen tava il pericolo più immediato. La macchina avrebbe funzionato in quel caso? Si domandò. Il curaro e la radioattività, che si combattevano a vicenda, formavano una strana combinazione. Comunque, la macchina controllava i nervi vicini all'organo vitale, trasmetteva il suo messaggio ai muscoli, mentre il curaro aveva un effetto complesso che paralizzava interamente il nervo, stabilendo un lungo blocco per gli impulsi emanati dal cervello. Gli impulsi nervosi della macchina potevano venire trasmessi attraverso quei brevi tratti paralizzati? Probabilmente... la forza dei suoi segnali era controllabile. L'unica prova si poteva fare tentando.

Sue Brown ritrasse le mani e abbassò lo sguardo, senza capire. «Sta battendo, dottor Ferrel! Sta battendo... da Sé!»

Ferrel annui di nuovo, sebbene la maschera nascondesse il suo sorriso. La sua tecnica era ancora impeccabile, e aveva eseguito esattamente l'operazione dopo averla vista compiuta una sola volta, su un cane! Era ancora il Grande Ferrel! Poi. il suo amor proprio ridivenne normale, sebbene restasse l'euforia; e la sua esultanza s'incentrò sul problema più importante della sopravvivenza di Jorgenson. E più tardi, quando i polmoni incominciarono a muoversi da soli e l'infermiera smise di farli funzionare, lui se l'aspettava. Il resto del lavoro venne sbrigato in fretta, e Ferrel si staccò dal tavolo operatorio, abbassando la maschera e sfilandosi i guanti.

«Congratulazioni, dottor Ferrel!» La voce era gutturale, estranea. «Un'operazione veramente grande... veramente grande. Stavo quasi per fermarla, ma ora mi rallegro di non averlo fatto: è stato un piacere osservarla, signore». Ferrel alzò gli occhi, sbalordito, sul volto barbuto e sorridente di Kubelik, e non trovò parole mentre stringeva la mano che l'altro gli tendeva. Ma Kubelik, evidentemente, non si aspettava una risposta.

«Sono venuto di persona, vede; non potevo affidare la macchina a un altro, e fortunatamente ho potuto prendere l'areo. Poi ho visto che era così sicuro, così deciso... perciò, dato che non mi aveva notato, sono rimasto sullo sfondo a imprecare contro me stesso. Ora tornerò indietro, poiché non ha bisogno di me... dopo aver imparato qualcosa per averla vista al lavoro... No, non una parola: non una parola, signore. Non distrugga il suo miracolo con le parole. L'elicottero mi sta aspettando; vado. Ma la mia ammirazione per lei rimarrà in eterno!»

Ferrel si stava ancora guardando la mano quando l'elicottero cominciò a rombare; poi guardò il corpo che respirava, con J'arteria del collo che adesso pulsava regolarmente. Non occorreva nulla di più: era stato ammirato da Kubelik, l'uomo che giudicava sciocchi e incapaci tutti gli altri chirurghi. Per un secondo ancora tesaurizzò quella sensazione, poi la scacciò.

«Adesso», disse agli altri, mentre i guai dell'intero stabilimento ricadevano di nuovo sulle sue spalle, «dobbiamo soltanto sperare che il cervello di Jorgenson non sia stato lesionato dalla permanenza là fuori o dai nostri tentativi di tenerlo in vita artificialmente, e cercare di metterlo in condizioni di parlare prima che sia troppo tardi. Che Dio ce ne dia il tempo! Blake, lei conosce il lavoro di dettaglio quanto me, e non possiamo occuparcene entrambi. Faccia lei, con le infermiere appena arrivate: il minimo necessario per i pazienti sparsi nei reparti e in sala d'aspetto. Ce n'è qualcuno di nuovo?»

«Non ne sono più arrivati da un pò di tempo. Credo che siano riusciti a farla finita», rispose Sue Brown.

«Lo spero. Allora vada a prendere Jenkins e si sdrai da qualche parte. Lo stesso vale anche per lei e la Meyers, infermiera Dodd. Blake, ci lasci riposare tre ore, se può, e poi ci svegli. Prima non ci saranno nuovi sviluppi, e a lungo andare risparmieremo tempo se saremo riposati. E si occupi soprattutto di Jorgenson!»

 

La vecchia poltrona di pelle era un discreto giaciglio, e Ferrel era troppo esausto, fisicamente e mentalmente per essere schizzinoso... troppo esausto per ricavare il beneficio necessario da un sonno di tre ore, anzi, sebbene fosse quasi indispensabile che tentasse di dormire. Oziosamente, si chiese che cosa avrebbe pensato Palmer di tutti i suoi sistemi di sicurezza se avesse saputo che Kubelik era arrivato e ripartito con tanta facilità. Ma non aveva importanza: era molto dubbio che qualcun altro avesse voglia di avvicinarsi allo stabilimento e tanto meno di entrarci.

Ma in questo evidentemente, si sbagliava. Dopo molto meno di tre ore, Ferrel fu svegliato dal rombo di un elicottero. Ma il sonno gli offuscava troppo la mente, e cercò di riaddormentarsi. Poi venne un altro suono che lo strappò al dormiveglia. Era il crepitio secco di una mitragliatrice, dalla direzione del cancello. Una pausa e un'altra raffica. Un flusso di ricordi scaturiti dal sonno indicava che gli spari erano incominciati prima dell'arrivo dell'elicottero, quindi non doveva essere a quello che sparavano. Altri guai; e anche se non lo riguardavano, non poteva continuare a dormire. Si alzò e andò in sala operatoria proprio mentre un ometto che sembrava uno gnomo entrava dall'ingresso posteriore.

Il nuovo arrivato puntò su Ferrel dopo aver lanciato un'occhiata fuggevole a Blake e parlò in fretta, con un tono d'importanza che sfiorava quasi il ridicolo, ma con vivace sincerità. «Il dottor Ferrel? Uh, il dottor Kubelik... del Mayo, sa bene... ha segnalato che lei ha bisogno di aiuto, che ha pazienti ammucchiati dappertutto. Ci siamo offerti volontari... io, altri quattro medici, nove infermiere. Probabilmente avrei dovuto avvertirla, ma non sono riuscito a mettermi in comunicazione telefonica con lei. Ci siamo presi la libertà di venire direttamente, con tutta la velocità consentita dai nostri elicotteri».

Ferrel lanciò uno sguardo oltre la porta e vide che c'erano tre apparecchi, anziché uno come aveva immaginato lui, e stavano scaricando uomini e materiale. Si prese mentalmente a calci perché non aveva chiesto aiuto subito, quando aveva telefonato per chiedere la macchina di Kubelik; ma era così abituato a lavorare con il suo piccolo staff che aveva quasi dimenticato la soluzione più pratica per la sua professione nei casi d'emergenza. «Vi rendete conto dei rischi che correte venendo qui? Allora, tutto bene. Sono molto grato a lei e a Kubelik. Abbiamo qui una quarantina di pazienti, tutti bisognosi di cure, anche se francamente non so se avrete spazio per lavorare».

L'ometto indicò con il pollice alle proprie spalle. «Non si preoccupi. Quando Kubelik organizza qualcosa, non lesina. Abbiamo con noi tutto il necessario, in pratica tutta l'attrezzatura dell'ospedale per i casi di incidenti atomici, anche se forse dovrà darci una mano. Abbiamo anche una tenda-ospedale, reparti portatili per tutti i suoi pazienti. Vuole una mano qui, o preferisce che trasferiamo i pazienti nella tenda e le lasciamo campo libero? Oh, Kubelik le manda i suoi ossequi. Sorprendente, da parte sua!»

Kubelik, a quanto sembrava, aveva un'idea molto concreta degli ossequi, anche se li esprimeva in modo tanto teatrale; dato che aveva orchestrato i soccorritori volontari, c'era da meravigliarsi che non avesse trasferito li l'intero ospedale. «Sarà meglio che lasci a me l'infermeria», decise Ferrel. «Quelli nelle corsie probabilmente dovrebbero venire sistemati nella tenda, insieme agli uomini che adesso sono in sala d'aspetto. Noi siamo magnificamnete attrezzati per gli interventi d'emergenza, ma non siamo abituati a tener ricoverati qui i pazienti, quindi le sistemazioni lasciano molto a desiderare. Il dottor Blake le mostrerà tutto e l'aiuterà a organizzarsi. Le procurerà gli uomini per montare la tenda, anche. A proposito, ha sentito quel che è successo al cancello, mentre stavate atterrando?»

«Sì, infatti. E l'abbiamo anche visto... un gruppo di uomini in uniforme che sparavano con una mitragliatrice: ma miravano a terra e un mucchio di altra gente che scappava via agitando i pugni, pareva. Avevamo paura che ci facessero la stessa accoglienza, ma non si sono accorti di noi».

Blake sbuffò, quasi divertito. «Probabilmente ve l'avrebbero fatta, se il nostro direttore non avesse dimenticato di dar ordine di sparare anche ai mezzi aerei; devono essere convinti che per via aerea possono arrivare soltanto le autorità. Qaundo sono arrivato, stamattina, ho visto parecchie persone discutere dei loro parenti che lavorano qui; deve trattarsi di loro». Indicò all'ometto di seguirlo, poi girò la testa verso Sue Brown. «Gli mostri i risultati mentre io faccio il giro, tesoro».

Ferrel dimenticò le nuove reclute e si voltò di scatto verso la ragazza. «Va male?»

Lei non fece commenti; prese uno schermo di piombo e lo collocò sopra il petto di Jorgenson per arrestare tutte le radiazioni emesse dalla parte inferiore del corpo, poi accostò alla gola del ferito l'indicatore. Doc diede un'occhiata soltanto: non ebbe bisogno d'altro. Era evidente che Blake aveva già fatto del suo meglio per asportare tutti i frammenti radioattivi dagli organi necessari per parlare, nella speranza di bloccare gli altri con l'anestesia locale; allora sarebbe stato possibile controbilanciare gli effetti del curaro abbastanza a lungo per ottenere le informazioni necessarie. Ma altrettanto evidentemente il tentativo non era riuscito. Non aveva senso continuare a neutralizzare il blocco causato dal curaro, solo per ritrovarsi con Jorgenson sotto l'influsso del materiale radioattivo ancora presente. I frammenti erano troppo minuti e troppo dispersi per asportarli chirurgicamente. E adesso Ferrel non sapeva che fare.

La mano magra di Jenkins gli sottrasse l'indicatore di radiazioni. Il ragazzo stava già aggrottando la fronte quando Ferrel alzò gli occhi un pò stupito, e la sua espressione non cambiò. Annuì, adagio. «Già. L'avevo immaginato. E lei aveva fatto un lavoro magnifico. Peccato. Ho assistito dalla soglia, e mi ero quasi convinto che si sarebbe ripreso, dopo aver visto il suo intervento. Ma... quindi dobbiamo fare a meno di lui, e Hoke e Palmer non hanno ancora trovato una pista che meriti un tentativo. Vuol venire nel mio ufficio, Doc? Qui non possiamo far niente».

 

Ferrel seguì Jenkins nel piccolo ufficio che dava sulla sala d'aspetto ormai vuota: gli uomini arrivati dall'ospedale avevano lavorato in fretta, a quanto pareva. «Allora non ha dormito, immagino. Dov'è Hokusai, adesso?»

«È fuori con Palmer: ha promesso di fare il bravo, se questo può consolarla... Simpatico. Hoke: avevo dimenticato che effetto fa parlare con un ingegnere atomico senza venir deriso. E anche Palmer. Vorrei...» Per un momento, la faccia del ragazzo si illuminò del primo bagliore di normale orgoglio umano che Doc avesse visto in lui. Poi alzò le spalle e l'espressione svanì dalle guance scavate e dagli occhi rossi. «Abbiamo ideato un piano assurdo, ma non è gran cosa».

La voce di Hoke arrivò dalla soglia; il giapponese entrò e sedette cautamente su una delle tre poltrone. «Non, non gran cossa! Già fallito. Jorgensson?»

«Nessuna speranza! Cos'è successo?»

Hoke allargò le braccia e socchiuse gli occhi. «Niente. Ssapevamo che poteva mai funzionare, no? Misster Palmer, lui ha avuto pressto qui, cossi facciamo ancora piani, io pensso adesso meglio che muoviamo via di qui. Palmer, io... siamo teorici, ssoprattutto; e sscussi, anche lei dottore. Jorgensson era l'uomo di produzione. Niente Jorgensson, niente... ah... da fare!»

Mentalmente, Ferrel si dichiarò d'accordo con l'idea di andarsene di lì... e presto! Ma capiva il punto di vista di Palmer; rinunciare alla battaglia era contrario al suo carattere. E poi, quando fosse venuta l'esplosione, con i conseguenti danni su un'area imprevedibile, i gruppi di pressione, al Congresso, sarebbero entrati in scena, reclamando l'abolizione di tutti gli stabilimenti atomici; adesso se ne stavano abbastanza tranquilli, ma aspettavano l'occasione... o più probabilmente si stavano già aggrappando alle voci che si diffondevano, per sfruttarle nel loro interesse. Se, per un colpo di fortuna, Palmer fosse riuscito a salvare lo stabilimento senza altre perdite di vite umane e di materiale, le loro proteste sarebbero state presto dimenticate, e i benefici offerti dai prodotti della National avrebbero ancora una volta controbilanciato i rischi.

«Cosa succederà, se scoppia tutto?» chiese Ferrel.

Jenkins alzò le spalle, mordendosi le labbra. Andò a prendere dalla scrivania un fascio di fogli coperti da simboli scarabocchiati. «Nessuno lo sa. Supponga che tre tonnellate dei nuovi esplosivi dell'esercito scoppino in un miliardesimo... o almeno in un milionesimo di secondo. Normalmente, vede, in confronto all'energia atomica, quella roba brucia come un fuoco qualunque, lentamente e tranquillamente, lasciando ai gas il tempo di disperdersi in buon ordine. Ma immagini che esploda tutto insieme: allora potrebbe spalancare una buca che spaccherebbe in due l'intero continente, dalla baia di Hudson al golfo del Messico, lasciando un mare al posto dell'attuale Middle West. Oppure, viceversa, potrebbe limitarsi a sterminare tutto entro un raggio di cinquanta miglia. Bene, può capitare qualunque cosa tra questi due estremi. Questa roba non è l'U-235, vede».

Doc rabbrividi. Aveva immaginato lo stabilimento che esplodeva con violenza, e magari anche qualche edificio vicino.. ma non una cosa simile. Per lui era stato un problema locale, e invece sembrava che non fosse così. Non si stupiva più che Jenkins fosse in quello stato d'agitazione repressa: non era un eccesso di fantasia, bensì la fredda, concreta conoscenza che lo preoccupava. Ferrel li scrutò mentre si chinavano di nuovo su quei simboli, seguendo punto per punto i calcoli nella speranza di trovare una scappatoia prima trascurata. Poi decise di lasciarli soli.

L'intero problema era insolubile senza Jorgenson, a quanto pareva, e Jorgenson era affidato alla sua responsabilità: se lo stabilimento fosse esploso, la colpa sarebbe stata sua. Ma non c'erano soluzioni. Se fosse servito a qualcosa, avrebbe collegato direttamente il cervello agli organi della favella, legando il corpo e bloccando tutti i nervi al di sotto del collo, usando una laringe artificiale anziché la normale respirazione attraverso le corde vocali. Ma l'indicatore gli aveva dimostrato che era inutile, gli ordini non sarebbero mai arrivati a destinazione dal cervello, con tutta quella quantità di sostanze radioattive ancora presenti che li respingeva... anche ammettendo che il cervello non fosse rimasto lesionato, il che era molto dubbio.

Fortunatamente per Jorgenson, la sostanza era finemente disseminata in tutta la testa, senza concentrazioni incontestabilmente distruttive per la sua mente; ma quella fortuna era anche un disastro, poiché sarebbe stato impossibile asportare le particelle con i mezzi noti alla medicina. Era impossibile persino una cosa semplicissima come fargli leggere le domande e indurlo a rispondere abbassando una palpebra mentre gli mostravano le lettere dell'alfabeto.

I nervi! Quelli di Jorgenson erano bloccati, ma Ferrel si domandava se anche loro non erano in uno stato altrettanto disastroso. Probabilmente c'era, alla loro portata, una soluzione che non si trovava perché i nervi di tutti, nello stabilimento, erano bloccati dalla paura e dalla pressione troppo assillante. Jenkins, Palmer, Hokusai... in condizioni puramente teoriche ognuno di loro avrebbe potuto individuare la soluzione del problema: ma forse era la stessa necessità di trovarla che la nascondeva. E forse questo era vero anche per il problema del trattamento di Jorgenson. Eppure, sebbene Ferrel si sforzasse di rilassarsi e di lasciare che la sua mente vagasse libera tra le nozioni apparentemente sconnesse, il suo pensiero ritornava di continuo alla necessità di far qualcosa, e subito!

Ferrel senti alle sue spalle una passo stanco. Si voltò e vide Palmer che entrava. Il direttore non aveva nessun diritto di entrare in sala operatoria, ma quei regolamenti ufficiali erano stati dimenticati, in una simile situazione.

«Jorgenson?» Palmer attaccò con la solita domanda, nei solito tono, e lesse la risposta nell'espressione di Doc. Nessuna novità. «Hoke e quel ragazzo, Jenkins, sono ancora là dentro?»

Doc annuì e lo segui verso l'ufficio di Jenkins. Era inutile, per loro, ma aveva ancora l'impressione che, saturandosi la mente con altre cose, qualche piccolo fattore che aveva trascurato potesse trovare l'occasione di affiorare. Inoltre, la curiosità lo dominava ancora: voleva sapere cosa stava succedendo. Si lasciò cadere sulla terza sedia, e Palmer sedette sul bordo della scrivania.

«Conosce un abile spiritista, Jenkins?» chiese il direttore. «Perché in questo caso sono disposto a tentare di evocare lo spettro di Kellar. Lo Steinmetz della scienza atomica... e doveva proprio morire prima che spuntasse l'isotopo R, senza darci neppure un'idea del tempo che abbiamo a disposizione per risolvere il problema. Ehi, ma cos'ha?»

Jenkins. si era teso in volto, raddrizzandosi sulla sedia; ma scrollò la testa, mentre un angolo della bocca si contraeva convulsamente. «Nulla. I nervi, credo. Io e Hoke abbiamo trovato qualche indicazione sulla durata, comunque. Non lo sappiamo ancora con precisione ma in base alle osservazioni effettuate là fuori e alla teoria generale, sembra che ci resti qualcosa tra le sei e le trenta ore; probabilmente una decina!»

«Non può durare di più. Già adesso sta costringendo gli uomini a ritirarsi! Neppure le ruspe corazzate riescono a entrare dove sarebbero più utili, e stiamo usando il capannone schermato del numero 3 come quartier generale per gli uomini. Fra un'altra mezz'ora, probabilmente non riusciranno più a restare tanto vicini. Gli indicatori di radiazione non registrano più niente, e ci sono sprazzi dappertutto, quasi in continuazione. Il calore è tremendo: è salito verso i trecento gradi centigradi, e adesso rimane costante, ma basta e avanza per riscaldare anche il numero 3».

Doc alzò la testa. «Il numero 3?»

«Già. A quella produzione non è successo niente: l'I-713 è uscito regolarmente, in perfetto orario». Palmer fece per prendere una sigaretta, si accorse che ne aveva una in bocca e sbatté il pacchetto sulla scrivania. «Dati significativi, Doc: se usciremo da questa faccenda, scopriremo che cosa ha causato l'alterazione nel numero 4... se ne usciremo! C'è qualche speranza di far funzionare quei fattori variabili. Hoke?»

Hoke scosse la testa, e ancora una volta Jenkins rispose, consultando gli appunti. «Nessuna speranza. Sicuro, almeno teoricamente l'R dovrebbe avere un periodo fra le dodici e le sessanta ore prima di trasformarsi nell'Isotopo di Mahler. a seconda delle catene o delle subcatene di reazione: sembrano tutte egualmente possibili, e con ogni probabilità adesso stanno avvenendo tutte, là dentro. Dipende da quello che c'è per assorbire i neutroni o per lasciarli liberi, dalla concentrazione e dalla quantità dell'R, persino dalle temperature alte o basse che modificano l'attività in una certa misura. È una delle variabili, su questo non c'è dubbio».

«Gli ssprazzi è la prova», confermò Hoke.

«Sicuro. Ma la quantità ammassata è troppo grande, e non possiamo dividerla quanto basta per raggiungere un livello di sicurezza, in modo che non lanci tutto intorno una pioggia d'energia. Appena una particella riuscirà a trasformarsi nell'Isotopo di Mahler. si precipiterà con un'energia sufficiente per spedire la particella più prossima giù per la stessa chi na, e via di seguito, più o meno alla velocità della luce. Se potessimo sistemare le cose in modo che prima se ne trasformasse un quantitativo, e poi un altro, e così via, benissimo... ma non possiamo farlo, a meno di avere la certezza di riuscire a isolare ogni quantitativo superiore a un decigrammo rispetto a tutti gli altri! E se cominciamo a dividerlo in quantitativi sufficientemente piccoli, è probabile che uno scelga la subcatena di trasformazione più breve ed esploda da un momento all'altro: è stato un caso a darci una concentrazione iniziale che ha eliminato la catena più corta, ma non possiamo dividerla in piccoli lotti, e questi in lotti ancora più piccoli e così via. Troppo rischio!»

Ferrel sapeva, vagamente, che esistevano cose chiamate variabili, ma la teoria di base era troppo nuova e complessa per lui: quel pò che sapeva l'aveva imparato quando le sostanze radioattive più semplici procedevano normalmente dal radio al piombo, per esempio, con un periodo di dimezzamento noto e fisso, mentre adesso si usavano gli atomi superpesanti che potevano lanciarsi su parecchi percorsi diversi, per finire comunque nello stesso modo. Non ci capiva nulla: perciò fece per alzarsi, con l'intenzione di tornare da Jorgenson.

Le parole di Palmer lo fecero fermare. «Lo sapevo, naturalmente, ma speravo di essermi sbagliato. Allora... dobbiamo evacuare. È inutile continuare a illuderci. Chiamerò il governatore e cercherò di convincerlo a far sgomberare la zona circostante. Hoke, può dire agli uomini di andarsene! Potevamo sperare soltanto nell'isotopo neutralizzante, e non c'è possibilità di procurarcene a sufficienza. Finora non c'era mai stato motivo di produrre l'I-231 in dosi di tonnellate. Bene...»

Palmer tese la mano verso il telefono, ma Ferrel l'interruppe. «E gli uomini ricoverati in infermeria? Sono saturi di quella roba, quasi tutti ne hanno addosso più di un grammo a testa, sparso nell'organismo. Forse sono pericolosi quanto il convertitore, ma non possiamo semplicemente andarcene e piantarli qui!»

Scese un silenzio che fu rotto dal mormorio di Jenkins. «Mio Dio! Che stupidi siamo! Abbiamo discusso per ore l'I-231, e io non ci ho mai pensato. E adesso voi due mi buttate in faccia il nesso, e poco manca che me lo lasci sfuggire ancora!»

«I-231. Ma non c'è sufficiente. Forsse dieci chili, forsse meno. Tre e un mezzo giorno per farne ancora. Quel poco che abbiamo non sservirebbe, dottor Jenkins. Questo dimentichiamo già». Hoke accostò un fiammifero a un foglio di carta, vi fece cadere sopra una goccia d'inchiostro e lo guardò continuare a bruciare per un secondo, prima di spegnerlo. «Cossi. Una goccia d'acqua per fermare un incendio di foressta. No».

«Sbagliato, Hoke. Una goccia che si trasformerà in un fiume... forse. Vede, Doc, l'I-231 è un isotopo che reagisce atomicamente con l'R... questo l'abbiamo già accertato. Si unisce semplicemente con l'R, e le due sostanze si scindono in elementi non radioattivi e in una certa quantità di calore, come avviene in molte altre reazioni atomiche: ma questa non è violenta. I due isotopi si scambiano amichevolmente alcune parti e formano atomi più semplici e stabili. Ne abbiamo qualche chilo a disposizione, e non possiamo produrne a sufficienza in tempo per rimediare con il numero 4, ma ne abbiamo abbastanza per guarire tutti i pazienti, incluso Jorgenson!»

«Che quantità di calore?» Doc si scosse dall'apatia, pensando ai particolari di interesse medico. Nell'ingegneria atomica può essere modesto; ma lo sarebbe anche per l'organismo umano?»

Hokusai e Palmer seguivano con immensa attenzione la matita con la quale Jenkins faceva i calcoli. «Diciamo che Jorgenson abbia addosso cinque grammi di isotopo, per stare sul sicuro... gli altri meno. Tempo della reazione... uhm. Ecco il calore totale prodotto e il tempo impiegato dalla reazione, probabilmente, nel corpo umano. L'I-231 è solubile nell'acqua, nella forma di cloruro che abbiamo a disposizione, quindi la diffusione nell'organismo non sarà un problema. Cosa ne conclude, Doc?»

«Un aumento della temperatura tra i dodici e i diciassette gradi, secondo una stima approssimativa. Uh!»

«Troppo! Jorgenson non potrebbe sopportare neppure un aumento di dieci gradi, in questo momento!» Jenkins guardò cupamente i suoi calcoli, tamburellando nervosamente con le dita.

Doc scosse il capo. «Non è troppo! Possiamo prima abbassare la temperatura corporea nel bagno ipotermico, portarla a ventidue gradi, e poi lasciarla salire a trentanove, se è necessario, e senza nessun pericolo. Grazie a Dio, le apparecchiature le abbiamo. Se asporteranno tutti gli impianti frigoriferi della mensa e improvviseranno i bagni, i volontari che sono là fuori nella tenda-ospedale potranno incominciare con gli altri uomini mentre noi ci occupiamo di Jorgenson. Almeno così potremo portar via tutti i pazienti, anche se non ce la faremo a salvare lo stabilimento».

 

Palmer li fissò confuso, poi, di colpo, si galvanizzò. «Impianti frigoriferi... volontari... tenda-ospedale? che... Bene, Doc, di cosa ha bisogno?» Prese il telefono e cominciò a dare ordini di portare nell'infermeria tutto l'I-231 disponibile, smontare gli impianti frigoriferi della mensa e provvedere a tutte le altre richieste di Doc. Jenkins se ne era già andato per informare i medici volontari, senza neppure domandare come fossero arrivati lì, ma tornò in sala operatoria prima che Doc entrasse, con Palmer e Hokusai alle calcagna.

«Blake è andato a dirigere le operazioni là fuori», annunciò Jenkins. «Dice che se ha bisogno della Dodd, della Meyers, di Jones o di Sue, stanno dormendo».

«Non abbiamo bisogno di loro. Voi mettetevi là e non disturbate, se proprio dovete stare a guardare», ordinò Ferrel ai due ingegneri, mentre insieme a Jenkins cominciava a collegare le unità refrigeranti all'eccitatore. «Prepari il sangue di Jorgenson, Jenkins: lo porteremo al minimo, per stare sul sicuro. E dovremo annotare la caduta della temperatura e regolargli il cuore e la respirazione sui ritmi che sarebbero normali in quelle condizioni: l'uno e l'altra, adesso, sono al di fuori del suo controllo».

«E dobbiamo pregare», aggiunse Jenkins. Prese la cassettina dalle mani del fattorino che l'aveva portata prima ancora che quello avesse varcato la soglia e cominciò a preparare la soluzione, pesando la polvere biancastra e misurando l'acqua meticolosamente ma con la rapidità che era automatica, in lui, sotto tensione. «Doc, se non funziona... se Jorgenson ha perso la ragione o qualcosa del genere, si troverà per le mani un altro caso di pazzia. Un'altra falsa speranza basterebbe a finirmi».

«Non un altro caso: quattro! Siamo tutti nella stessa barca. La temperatura sta scendendo, benissimo... vado un pò in fretta, ma non c'è pericolo. Ora è a trentasei». Il termometro infilato sotto la lingua di Jorgenson era quello usato per l'ipotermia, e reagiva molto più rapidamente di un normale termometro per la febbre. Lentamente, con tormentosa riluttanza, il piccolo ago girò sul quadrante, scese a trentaquattro, continuò la discesa. Doc lo seguiva con gli occhi, rallentando in proporzione il ritmo cardiaco e il respiro. Perse il conto delle volte che dovette ordinare a Palmer di tirarsi indietro, e alla fine desistette.

Mentre attendeva, si domandava come se la stavano cavando gli altri, nell'ospedale da campo. Avevano ancora tempo di sistemare i loro apparecchi refrigeranti improvvisati e di curare gli uomini, a gruppi... una decina d'ore, probabilmente. E ormai l'ipotermìa era un metodo molto comune. Jorgenson era l'unico caso urgente. Quasi impercettibilmente, per Doc, ma rapidamente secondo i criteri normali, la temperatura continuò a scendere. Finalmente arrivò a ventun gradi.

«Pronto. Jenkins. faccia l'iniezione. Basta così?»

«No. Credo che sia quasi sufficiente, ma dobbiamo andarci piano per trovare un equilibrio adeguato. Una dose troppo forte di questa roba potrebbe fare quasi gli stessi danni dell'altra. L'indicatore sale, Doc?»

Saliva, e molto più rapidamente di quanto avrebbe voluto Ferrel. Mentre la sostanza scorreva nei vasi sanguigni e si disperdeva nei finissimi depositi di particelle radioattive, l'ago cominciò a risalire oltre i ventidue, raggiunse i trentaquattro, salì ancora. Si arrestò a trentotto e cominciò a ridiscendere lentamente via via che il bagno refrigerante assorbiva il calore delle cellule dell'organismo. L'indicatore di radioattività segnalava ancora la presenza dell'Isotopo R, sebbene molto più debolmente.

La seconda dose iniettata fu più piccola, e la terza ancora più modesta. «Ci siamo quasi», commentò Ferrel. «La prossima dovrebbe bastare».

Usando le iniezioni parziali, ci sarebbe stato bisogno di abbassamenti delle temperature meno forti di quelli cui avevano sottoposto Jorgenson, ma non era niente di male. Finalmente, quando l'ultima, minuta quantità di soluzione dell'I-23l fu entrata nelle vene dell'uomo ed ebbe fatto effetto, Doc annuì. «Nessun segno di radioattività. La temperatura è a trentacinque, adesso che ho interrotto la refrigerazione, e tornerà rapidamente normale. Prima che possiamo neutralizzare il curaro, sarà pronto. Ci vorranno circa quindici minuti, Palmer».

Il direttore annuì e restò a guardare mentre smontavano l'apparecchio per l'ipotermia e procedevano a neutralizzare il curaro. Era sempre una procedura più lenta del trattamento di somministrazione, ma in parte il lavoro era stato già svolto dai normali processi fisiologici, e il resto era semplice. Per fortuna, la neo-eroina aveva quasi cessato di agire, perché eliminarla avrebbe rappresentato un problema più lungo e più difficile.

«Mr. Palmer al telefono. Mr. Palmer. Mandate Mr. Palmer al telefono». Le parole della centralinista non avevano la solita precisione artificiosa: erano una cantilena nervosa. Cominciava a risentirne anche lei, e di solito non soffriva d'eccessiva immaginazione. «Mr. Palmer è desiderato al telefono».

«Qui Palmer». Il direttore prese l'apparecchio più vicino, senza schermo. Era impossibile capire chi fosse l'interlocutore. Ma Ferrel vide sparire dal viso di Palmer quel pò di speranza che era apparsa alla prospettiva della rianimazione di Jorgenson. «Sta bene! Vada, e si prepari a evacuare, ma non dica niente fino a nuovo ordine! Riferisca agli uomini che Jorgenson sta per riprendersi, così avranno qualcosa di cui parlare».

Palmer si girò verso gli altri. «Purtroppo è inutile, Doc. È già troppo tardi. L'isotopo ha intensificato di nuovo l'attività e devono abbandonare il numero 3. Starò qui ad aspettare che Jorgenson rinvenga; ma anche se è lucido e conosce la soluzione, non potremo servircene!»

 

VI.

 

«La guarigione sarà lunga e lenta, ma almeno dovrebbero ricrescere meglio delle costole d'argento. Comunque, non verrà mai bene in radiografia». Doc Ferrel teneva in mano lo strumento, fissando il torace aperto di Jorgenson. Scrollò leggermente le spalle. I sottili filamenti di platino erano stati staccati dai nervi connessi al cuore e ai polmoni, e gli impulsi normali dell'organismo erano rientrati in azione, meno regolari che sotto l'effetto dell'eccitatore, ma senza sintomi di pericolo. «Bene, non avrà molta importanza, purché sia ancora sano di mente».

Jenkins lo guardò ricucire l'incisione, poi alzò gli occhi in direzione del convertitore. «Doc, deve essere sano di mente! Se Hoke e Palmer confermano quello che sembra accadere là fuori, dobbiamo contare su Jorgenson. C'è una soluzione, ci deve essere! Ma senza di lui non la troveremo».

«Uhm-m. A me sembra che qualche idea ce l'abbia anche lei, figliolo. Finora ha avuto ragione, e se Jorgenson è fuori causa...» Ferrel spense la suturatrice, finì la medicazione e si lasciò cadere su una panca. Sapeva che adesso potevano soltanto aspettare che gli antidoti agissero e facessero rinvenire Jorgenson. Ora che aveva allentato un pò l'autocontrollo, lo sfinimento l'investiva completamente; si tolse i guanti con le dita incerte. «Comunque, fra altri cinque minuti lo sapremo».

«E il cielo ci aiuti, Doc, se toccherà a me. Ho sempre avuto il bernoccolo della teoria atomica; ci sono cresciuto in mezzo. Ma lui è l'uomo della produzione, è lui che ci ha lavorato per settimane e settimane, e per giunta il processo l'ha ideato lui... Eccoli! Li lasciamo entrare?»

Ma Palmer e Hokusai non attesero il permesso. In quel momento, Jorgenson era il centro nevralgico dello stabilimento e li attirava come un magnete. I due si avvicinarono, a guardarlo, poi sedettero in una posizione che permetteva loro di non lasciarsi sfuggire i segni della ripresa. Palmer riattaccò la conversazione dal punto in cui l'aveva interrotta, rivolgendosi a Hokusai e a Jenkins.

«Accidenti al postulato Link-Stevens! Fallisce tante di quelle volte, fino a quanto ti convinci che è infondato: e poi ti capita questo! È magia nera, non scienza, e se ne verrò fuori, troverò qualche idiota più coraggioso che sensato disposto a scoprire il perché. Hoke, è sicuro che sia la catena theta? Non c'è neppure una probabilità su diecimila che si verifichi lo sa. È inutile, difficile da arrestare, e tende a riconvertirsi in catene più semplici alla prima occasione».

Hokusai allargò le mani, alzò una palpebra per guardare Jenkins con aria interrogativa, poi annuì. La voce del ragazzo era opaca, quasi apatica. «È quel che pensavo che fosse, Palmer. Nessuna delle altre irradia tanta energia in questa fase, a giudicare dalle sue descrizioni di quel che sta succedendo là fuori. Probabilmente, il nostro ultimo tentativo di domare la reazione l'ha avviato su quella strada, e la concentrazione dell'isotopo è sufficiente per continuarla. Avevamo pensato che fosse più probabile una decina di ore, quindi ha scelto la catena breve, quella di sei ore».

«Già». Palmer aveva ripreso a camminare nervosamente avanti e indietro, girando gli occhi verso Jorgenson da ogni direzione in cui veniva a trovarsi. «E in sei ore, forse, tutta la popolazione dell'area circostante può venire evacuata, e forse no; ma dobbiamo tentare. Doc, ormai non posso neppure attendere che Jorgenson rinvenga! Devo fare intervenire subito il governatore!»

«Questa gente ha praticato il linciaggio anche in tempi recenti», gli rammentò cupamente Ferrel. Aveva visto il risultato di uno di quei casi di violenza collettiva, quando esercitava ancora privatamente; e sapeva che la gente non cambia molto, con gli anni. Si sarebbero mossi, ma prima avrebbero preteso una vittima sacrificale. «È meglio mandar via prima gli uomini, Palmer, e le consiglio di andarsene molto lontano: ho sentito quel che è successo al cancello, e sarà una cosa da niente in confronto a quello che si scatenerà all'ordine di evacuazione».

Palmer borbottò: «Doc, lei non ci crederà, ma in questo momento non m'importa un accidente di quello che può capitare a me o allo stabilimento, ormai».

«E gli uomini? Faccia entrare qui una folla inferocita che le dà la caccia per ucciderla, e gli uomini si schiereranno dalla sua parte, perché sanno che non è stata colpa sua, e hanno visto a che rischi si è esposto personalmente. L'orda non sarà molto schizzinosa, in quanto agli obiettivi, quando sarà abbastanza esasperata, e qui si scatenerà una rissa infernale. E poi, Jorgenson è praticamente pronto».

Pochi minuti in più o in meno non avrebbero comportato una grande differenza nell'evacuazione, e Doc preferiva non pensare a sua moglie, semi-invalida, in quell'inferno che si sarebbe rivelato lo sgombero della zona: molto probabilmente si sarebbe rifiutata di muoversi fino a che lui non fosse tornato. Il suo sguardo cadde sulla cassetta con la quale Jenkins giocherellava nervosamente, e cercò di prendere tempo. «Mi sembrava avesse detto che era pericoloso suddividere l'isotopo in piccole particelle, Jenkins. Ma quella cassetta lo contiene in frammenti di varie dimensioni, incluso uno piuttosto grosso che abbiamo estratto, oltre agli strumenti contaminati. Perché non è esploso?»

Jenkins ritrasse la mano di scatto e arretrò d'un passo prima di controllarsi. Poi attraversò la sala, andò a prendere l'I-231 e tornò, versando la polvere bianca sul contenuto della cassetta, con movimenti frenetici. Hokusai aveva spalancato gli occhi, e stava versando acqua per riempire lo spazio restante e mantenere l'I-231 in contatto con ogni oggetto. Quasi subito, nonostante la moderata liberazione d'energia, la sostanza esalò una nube di vapore bianco, più rapidamente di quanto il condizionatore riuscisse a eliminarla: ma ben presto il vapore svanì e scomparve.

Hokusai si asciugò lentamente la fronte. «Le tute... corazzate degli uomini?»

«Le ho mandate al convertitore e le ho fatte buttare nell'isotopo già da un pezzo, per maggior sicurezza,» rispose Jenkins. «Ma ho dimenticato a cassetta, come uno stupido. Ugh! O ci ha salvato il caso, oppure l'isotopo irradiava lungo una catena ragionevolmente lunga. Non lo so e in questo momento non mi int...»

«Oh! no... Dove sono?»

«Jorgenson!» Si voltarono tutti all'unisono, ma Jenkins fu il primo a raggiungere il tavolo operatorio. Gli occhi di Jorgenson erano aperti e roteavano in modo seminormale, le mani si muovevano torpidamente. Il ragazzo si chinò sulla faccia, irradiando tensione. «Jorgenson, può capire quello che sto dicendo?»

«Uh». Jorgenson smise di muovere gli occhi e li fissò su Jenkins. Si portò una mano alla gola, stringendola, e con l'altra tentò invano di sollevarsi. Ma le conseguenze di tutto ciò che aveva passato sembravano lasciarlo in uno stato di paralisi parziale.

Ferrel non aveva osato sperare che il ferito fosse sano di mente, e il suo cervello era attenuato dal dubbio. Spinse indietro Palmer e scosse il capo. «No. Lasci fare al ragazzo. Ne sa abbastanza per non sconvolgerlo, in questo momento, e lei non è medico. È meglio non precipitare le cose».

«Io... uh... Il giovane Jenkins? Che ci fai qui? Di a tuo padre di darsi da fare là fuori!» Nella gigantesca figura di Jorgenson, una riserva intatta d'energia e di volontà entrò in azione. Si sollevò a sedere, tenendo gli occhi fissi su Jenkins, continuando a stringersi con la mano la gola che rifiutava di obbedirgli. Le sue parole erano confuse e incerte, ma la volontà vinse ogni ostacolo e le rese comprensibili.

«Mio padre è morto, Jorgenson. Ora...»

«È vero. E tu sei cresciuto... avevi dodici anni... Lo stabilimento!»

«Calma, Jorgenson». La voce di Jenkins aveva un tono casuale, sebbene le sue mani, sotto il tavolo operatorio, fossero contratte e sbiancate. «Mi ascolti, e non cerchi di parlare prima che io abbia finito. Lo stabilimento per ora è intero, ma abbiamo bisogno del suo aiuto. Ecco cos'è successo.»

 

Ferrel capì pochissimo delle frasi enigmatiche che seguirono, sebbene si rendesse conto che erano una specie di gergo stenografico specializzato. A giudicare dai cenni di approvazione di Hokusai, riassumevano concisamente ma completamente la situazione. Jorgenson restò seduto, rigido, fino alla fine, con gli occhi fissi sul ragazzo.

«Maledetto guaio! Devo pensare... avete tentato...» Jorgenson cercò di ridistendersi, e Jenkins lo aiutò, aggrappandosi febbrilmente a ogni mutamento incerto dell'espressione di quell'uomo. «Uh... disastro! Voi... uh... urrgh!»

«Ha capito?»

«Uh!» Il tono era indiscutibilmente affermativo, ma le mani strette intorno alla gola erano fin troppo eloquenti. Quell'esplosione temporanea di energia l'aveva sfinito, e non riusciva a parlare. Jorgenson rimase sdraiato, ansimando, lottando, poi si rilassò dopo qualche altra parola sussurrata e inarticolata.

Palmer afferrò la manica di Ferrel. «Doc, non può fare niente?»

«Posso tentare». Ferrel misurò dubbiosamente una quantità minutissima di antidoto, controllò il polso di Jorgenson e decise di dimezzare la dose. «Non ho molte speranze, comunque. Quell'uomo ha sofferto l'inferno, e non gli ha fatto bene essere rianimato a forza. Se esageriamo, finirà per delirare, ammesso che parli. Comunque, sospetto che si tratti dei centri cerebrali del linguaggio, non soltanto della gola».

Ma Jorgenson si scosse quasi subito, ritentando, e parve chiamare a raccolta le forze per un ultimo tentativo. Le parole gli uscirono aspre dalle labbra con forzata chiarezza, ma senza inflessioni.

«Prima... variabile... a... dodici... acqua... ferma». Gli occhi fissi su Jenkins si chiusero, e Jorgenson si rilassò di nuovo, stavolta senza più resistere all'inevitabile stato d'incoscienza.

Hokusai, Palmer e Jenkins si scambiarono occhiate interrogative. Il piccolo giapponese scosse la testa, aggrottò la fronte e ripeté, imitato quasi esattamente dal direttore: «Delirio!»

«Jorgenson, la grande speranza bianca!» Jenkins piegò le spalle, e il sangue gli defluì dal volto, lasciandolo devastato dalla stanchezza e dalla disperazione. «Oh, accidenti, Doc, la smetta di fissarmi! Non posso tirar fuori un miracolo!»

Doc non si era accorto di fissare il ragazzo, ma non deviò lo sguardo. «Forse no, ma lei ha l'immaginazione più attiva di tutti noi. quando non ne abusa per spaventare se stesso. Bene, adesso è con le spalle al muro, e io continuo a puntare su di lei. Vuol scommettere, Hoke?»

Era assolutamente stupido, e Doc lo sapeva: ma durante le lunghe ore trascorse fianco a fianco, aveva acquisito uno strano rispetto per il ragazzo e aveva imparato a contare sul suo nervosismo che non era paura, era più simile alla reazione di un purosangue che sente l'odore della stalla. Hoke era troppo lento e metodico, e Palmer era sempre stato troppo preso dai problemi esterni per dedicare tutta l'attenzione alla fase più urgente del problema. Restava soltanto Jenkins, intralciato dalla mancanza di fiducia in se stesso.

Hoke non diede segno di aver afferrato il significato della vistosa strizzata d'occhio di Ferrel, ma alzò leggermente le sopracciglia. «Io, io credo che non ssono sscommesso. Dottor, Jenkinss, io ssono di essere comando!»

Palmer lanciò un'occhiata al ragazzo, il cui viso rispecchiava una confusione incredula: ma non aveva l'ignoranza della tecnica atomica di Ferrel e neppure il fatalismo di Hokusai. Con un ultimo sguardo a Jorgenson, ancora privo di sensi, si avviò verso il telefono. «Voi giocate pure, se volete. Io dò inizio immediatamente all'evacuazione!»

«Aspetti!» Jenkins si stava scuotendo, fisicamente e mentalmente. «Aspetti, Palmer! Grazie, Doc! Mi ha buttato fuori dal solco, e ha rimandato la mia memoria a qualcosa che avevo sentito da qualche parte: credo che sia la soluzione! Deve funzionare... niente altro può riuscirci, in questa fase!»

«Mi dia il governatore, centralinista». Palmer aveva sentito, ma non rinunciò alla telefonata. «Non è il momento di tirare a indovinare. Prima dobbiamo portar via i nostri, ragazzo mio. Ammetto che come dilettante è molto in gamba, ma non è un ingegnere atomico!»

«E se allontaniamo di qui gli uomini, sarà troppo tardi... non resterà nessuno per svolgere il lavoro!» La mano di Jenkins scattò e sottrasse a Palmer il ricevitore del telefono. «Annulli la chiamata, centralinista; non sarà necessario. Palmer, deve ascoltarmi: non può far sgombrare l'intera parte centrale del continente, e non può neppure sperare che l'esplosione risulti più circoscritta. È un rischio, ma lei sta rischiando cinquanta milioni di persone contro centomila. Mi lasci una possibilità!»

«Le concedo esattamente un minuto per convincermi, Jenkins, e cerchi di essere persuasivo! Forse l'esplosione non colpirà oltre il limite delle cinquanta miglia!»

«Può darsi. E non posso spiegarmi in un minuto». Il giovane fece una smorfia. «Okay, lei non ha fatto altro che lamentarsi perché un uomo di nome Kellar è morto. Se fosse qui, di lui si fiderebbe? O si fiderebbe di qualcuno che ha collaborato con lui in tutto?»

«Assolutamente, ma lei non è Kellar. E so benissimo che era una specie di lupo solitario; non assunse più ingegneri esterni, dopo che Jorgenson litigò con lui e venne a lavorare qui». Palmer tese le mani verso il telefono. «Non attacca. Jenkins».

La mano di Jenkins bloccò l'apparecchio, allontanandolo. «Io non ero un collaboratore esterno, Palmer. Quando Jorgenson si spaventò e diede le dimissioni, io avevo dodici anni; tre anni dopo, Kellar decise che c'era troppo da fare per cavarsela da solo, ma pensò che tanto valeva fare le cose in famiglia, e cominciò a insegnare a me. Io sono il figliastro di Kellar!»

In quel momento, i pezzi del rompicapo andarono a posto nella mente di Doc Ferrel, che si rimproverò di non aver capito prima ciò che era tanto ovvio. «È per questo che Jorgenson la conosceva, allora? Mi era sembrato strano. Tutto quadra, Palmer».

Per un secondo, il direttore esitò, incerto. Poi scrollò le spalle e si arrese. «Okay. Sono pazzo a fidarmi di lei, Jenkins, ma ormai è troppo tardi per tentare qualcosa d'altro, credo. Non avevo dimenticato che stavo rischiando la località contro mezzo continente. Di cosa ha bisogno?»

«Uomini... soprattutto addetti alle costruzioni, e alcuni volontari per il lavoro sporco. Voglio che tutti gli apparecchi di ventilazione, gli aspiratori, le tubazioni e il resto vengano tolti dagli altri tre convertitori e collegati il più vicino possibile al numero 4. Li faccia piazzare in modo che sia possibile spingerli sopra l'isotopo per mezzo della gru... come, non m'interessa. I meccanici lo sapranno meglio di me. C'è una specie di fiume che passa dietro lo stabilimento; faccia allontanare tutti di un miglio, e colleghi al fiume tutti gli aspiratori. Dove va a finire, a proposito? In una specie di palude o in un acquitrino, mi pare?»

«Sì, a circa dieci miglia da qui, non ci siamo mai preoccupati di far funzionare l'impianto di drenaggio, dato che quella terra non c'interessava, e le paludi andavano benissimo come discariche». Nei primi tempi, il fiumiciattolo era stato usato per gettarvi i rifiuti dello stabilimento, ma c'erano state tante proteste che la National era stata costretta ad acquistare tutti i terreni adiacenti e a tranquilizzare a suon di contanti le paure dei proprietari. Da allora, la zona era rimasta abbandonata alle erbacce e ai conigli. «Tanto, non c'è nessuno entro un miglio, tranne pochi pescatori e qualche vagabondo che non sa neppure che la usiamo noi. Manderò la milizia ad allontanarli».

«Bene. Magnifico, anzi, perché le paludi tratterranno più a lungo il materiale, dato che la corrente là e molto lenta. E adesso, mi dica di quella supertermite che avete prodotto l'anno scorso. Ce n'è ancora?»

«Nello stabilimento, no. Ma ne abbiamo tonnellate in magazzino, in attesa che l'esercito la ritiri. Ma è roba pericolosa da maneggiare. La conosce?»

«Quanto basta per sapere che è quel che mi serve». Jenkins additò la copia del Weekly Ray che era rimasta dove l'aveva lasciata, e Doc ricordò di aver dato una scorsa alla parte divulgativa della descrizione. La sostanza era formata da due atomi superpesanti, tenuti separati. Presi isolatamente, nessuno dei due era particolarmente importante o attivo: ma insieme reagivano tra loro atomicamente, liberando una quantità enorme di calore e una relativamente modesta di radiazioni indesiderabili. «Raggiunse i ventimila gradi centigradi, no? Com'è immagazzinata?»

«Sotto forma di bombe da cinque chili con un divisorio interno fragile che si spezza all'urto, dando l'avvio alla reazione. Hoke può spiegarglielo... è una sua creazione». Palmer prese il telefono. «C'è altro? Allora, vada a darsi da fare! Gli uomini saranno pronti quando arriverà sul posto! E ci verrò anch'io, non appena avrò trasmesso i suoi ordini».

Doc li guardò uscire, seguiti dopo pochi minuti dal direttore. Era rimasto solo nell'infermeria, con Jorgenson e i suoi pensieri. Non erano pensieri piacevoli: lui era troppo al di fuori della cerchia ristretta degli esperti per capire quel che stava succedendo, e nel contempo troppo coinvolto per non rendersi conto dei pericoli. Avrebbe preferito avere qualcosa da fare per distogliere la mente dalle speculazioni inutili; ma non c'era niente, se non controllare le condizioni dell'ingegnere.

Si assestò nella poltrona di pelle, e commise l'errore di tentare di dormire, mentre la sua mente inseguiva i suoni che giungevano dall'esterno. C'era il rombo dei motori delle gru e delle ruspe corazzate, gli ordini gridati e concitati, e soprattutto il ritmo ossessivo dei martelli pneumatici sul metallo. Ogni suono gli suggeriva una possibilità, ma senza chiarire nulla. Il Decamerone era noioso, il whisky sapeva di rancido, e il solitario non riusciva neppure barando.

Finalmente, Ferrel si arrese e andò nell'ospedale da campo. Jorgenson sarebbe stato meglio lì. affidato alle cure dello staff arrivato dal Mayo, e forse lui avrebbe potuto rendersi utile. Mentre usciva dalla porta posteriore, sentì il rombo degli elicotteri che arrivavano con pesanti carichi, e alzò gli occhi mentre cominciavano a scendere. Un gruppo di uomini arrivò di corsa e sparì in direzione degli apparecchi. Ferrel si chiese se sarebbero stati costretti ad addentrarsi nell'isotopo, per ritornare impregnati di sostanze radioattive: ma ora non aveva molta importanza, dato che era possibile eliminare l'isotopo senza interventi chirurgici.

Blake gli andò incontro all'ingresso della tenda: aveva l'aria di essere molto soddisfatto del suo compito di dirigere e istruire gli altri. «Sparisca. Doc. Qui non è necessario, e ha bisogno di riposare. Non vogliamo dover curare anche lei. Quali sono le ultime novità dal fronte tecnico?»

«Jorgenson non è rinvenuto completamente, ma il ragazzo ha avuto un'idea, e adesso la stanno mettendo in pratica». Doc si sforzò di mostrarsi più speranzoso di quanto fosse in realtà. «Pensavo che forse sarebbe meglio portare qui Jorgenson: è ancora privo di sensi, ma sembra che non sia il caso di preoccuparsi. Dov'è la dottoressa Brown? Probabilmente vorrà sapere cosa sta succedendo, se non è andata a dormire».

«Andata a dormire, quando il ragazzo è sveglio? Uh-uh. Ha un complesso materno, deve preoccuparsi sempre per lui». Blake sogghignò. «L'ha visto correre fuori con Hoke alle calcagna, e lo ha inseguito, quindi probabilmente a quest'ora sa già tutto. Vorrei che qualche volta Anne mi corresse dietro così... Jenkins, il ragazzo prodigio! Beh, non è compito mio: non ho intenzione di preoccuparmi prima che me lo ordinino. Okay, Doc, tra un paio di minuti Jorgenson sarà sistemato, qui, perciò lei si trovi una branda e dorma un pò».

Doc borbottò, guardando incuriosito le perfette attrezzature dell'ospedale da campo. «L'ho già prescritto, Blake, ma il paziente non vuol saperne. Credo che andrò in cerca della Brown, quindi mi faccia chiamare con gli altoparlanti se c'è qualcosa di nuovo».

Ferrel si avviò verso il centro dell'azione: aveva sempre desiderato farlo, ma aveva temuto d'essere d'impaccio. Bene, se Sue Brown poteva andare ad assistere, non c'era motivo perché non lo facesse anche lui. Passò davanti all'officina, notando l'attività convulsa, e poi davanti al numero 2, dove altri uomini stavano staccando lunghi tratti di tubature e vari apparecchi. C'era una recinzione di corda che gli sbarrava la strada, al di là del numero 3; la costeggiò cercando Palmer o la Brown.

Fu lei a vederlo per prima. «Salve, dottor Ferrel, sono qui nel camion. Immaginavo che sarebbe arrivato presto. Da quassù possiamo vedere sopra le teste di tutta quella gente, e non corriamo il rischio di venire travolti». Gli tese una mano per aiutarlo a salire, e sorrise lievemente quando lui la rifiutò e sali più in fretta di quanto volessero i suoi muscoli. Non era tanto vecchio da dover accettare l'aiuto di una ragazza.

«Sa cosa sta succedendo?» le chiese, lasciandosi cadere seduto e guardando gli uomini affollati intorno al convertitore. Sembrava che ci fosse una dozzina di diversi centri di attività che si mescolavano nella confusione più totale, e il quadro generale non aveva senso.

«Non ne so più di lei. Non ho visto mio marito, anche se i'ho cercato a lungo fino a che Mr. Palmer mi ha relegata qui».

Doc accentrò l'attenzione sugli elicotteri che scaricavano, ripartivano e ritornavano con altri carichi, e intui che quelle casse dovevano contenere le piccole bombe di thermodyne. Era l'unica cosa che riusciva a comprendere, e quindi era la meno interessante. Altri uomini stavano montando i lunghi pezzi di tubature che aveva visto prima, collegandoli in una successione quasi interminabile, mentre le ruspe li agganciavano e li trasportavano in direzione del fiumicello che scorreva dietro lo stabilimento.

«Quelli devono essere gli aspiratori, credo», disse Ferrel a Sue Brown, indicandoli. «Ma non so cosa siano quegli altri aggeggi».

«Io lo so... conoscevo l'interno dello stabilimento del padre di Bob». Sue Brown inarcò un sopracciglio con aria interrogativa e proseguì al cenno di Doc. «I tubi servono per i gas di scarico, infatti, e quei grossi cosi squadrati sono i motori e i ventilatori... ne piazzano uno ogni centocinquanta metri di tubazione. Gli aggeggi che stanno avvolgendo intorno ai tubi devono essere i riscaldatori per non far raffreddare i gas. Hanno intenzione di risucchiare via tutta quella roba?»

Doc non lo sapeva, sebbene fosse l'unica cosa che potesse immaginare. Ma si domandava come avrebbero fatto ad avvicinarsi abbastanza per concludere qualcosa. «Ho sentito suo marito ordinare le bombe di thermodyne, quindi è probabile che tentino di trasformare il magma in gas; e poi lo pomperanno nel fiume».

Mentre finiva di parlare, da una parte ci fu un improvviso trambusto, e lui girò gli occhi immediatamente. Una delle gru si stava muovendo, con una lunga intelaiatura metallica sulla parte anteriore che sosteneva una sezione di tubo. S'inclinò pericolosamente, nonostante i sacchi di cemento che controbilanciavano il peso, ma centimetro per centimetro sollevò il carico e cominciò ad avanzare tra le macerie, tenendo il tubo in avanti e piuttosto in alto.

Sotto il tubo grande ce n'era un altro, più piccolo. Quando la gru si avvicinò ai margini della zona pericolosa, un oggetto scaturì dal tubo minore, cadde al suolo, scatenando un improvviso inferno di abbacinante luce biancazzurra, ancora più viva di quanto sembrasse, a giudicare dall'effetto sugli occhi. Doc li chiuse mentre qualcuno gli metteva qualcosa tra le mani.

«Li metta. Palmer dice che è luce attinica».

Ferrel senti Sue Brown muoversi accanto a lui, e poi la vista gli si schiari. Attraverso gli occhiali, vide una nube luminosa che si innalzava dal magma, si allargava vicino al suolo si assottigliava verso l'alto e veniva aspirata dal tubo grande, scomparendo. Un'altra bomba scivolò dal tubo piccolo ed esplose in un calore sfolgorante. Un'occhiata a lato mostrò a Ferrel un'altra gru che veniva equipaggiata allo stesso modo: un gruppo di uomini, li accanto, stava avvolgendo con stracci oliati le piccole bombe. Probabilmente non c'erano tubi dello stesso calibro esatto, e gli uomini le imbottivano in modo che la pressione potesse espellerle. Dal tubo ne caddero altre tre, una alla volta, e gli aspiratori rombarono e scricchiolarono, risucchiando nel condotto più grande la nube che si innalzava, e spingendola verso il fiume.

Poi la gru indietreggiò cautamente, gli uomini staccarono il condotto dalla tubatura principale e lo sostituirono con un altro. Il calore generato dalle esplosioni doveva essere troppo elevato perché il tubo resistesse senza fondersi, pensò Doc; tuttavia non avrebbero potuto tenere un uomo nella cabina corazzata per molto tempo, se il metallo non fosse stato impenetrabile. Adesso era pronta un'altra gru: si diresse verso un altro punto. Incominciò l'andirivieni delle gru, mentre gli uomini caricavano il materiale, fissavano e staccavano i tubi e davano il cambio ai colleghi che lasciavano le cabine. Doc Ferrel cominciò a sentirsi come uno spettatore a una partita di tennis, che seguisse la palla senza conoscere le regole del gioco.

Sue Brown dovette avere la stessa idea, perché lo prese per il braccio e gli indicò il piccolo astuccio di pelle che spuntava dalla sua borsetta. «Doc, sa giocare a scacchi? È meglio che passiamo il tempo con qualche partita, invece di stare qui a guardare. Dicono che faccia bene ai nervi».

Ferrel accettò, riconoscente, senza spiegare che era stato campione cittadino per tre anni consecutivi: ci sarebbe andato piano, avrebbe studiato il gioco di Sue, si sarebbe svantaggiato di proposito facendosi mangiare una torre, un alfiere o un cavallo, per pareggiare le probabilità... E se avessero estratto tutto il magma versandolo nel fiume? Avrebbero risolto il problema? Certo, lo avrebbero allontanato dallo stabilimento, ma non per il limite minimo delle cinquanta miglia.

«Scacco», annunciò Sue Brown. Ferrel arroccò, poi alzò gli occhi verso le sei gru in azione. «Scacco! Scaccomatto!»

Ferrel si affrettò a guardare di nuovo la scacchiera e vide che la regina di Sue bloccava tutte le possibili mosse, mentre l'alfiere gli dava scacco. Poi girò gli occhi verso il re della ragazza. «Uhm. Sapeva che è sotto scacco da una mezza dozzina di mosse? Perché io non me ne sono accorto».

Lei aggrottò la fronte, scosse il capo e ricominciò ad allineare i pezzi. Doc mosse il pedone di regina, guardò gli uomini al lavoro, poi fece uscire l'alfiere di re e vide che Sue lo prendeva con il suo pedone di re. Non aveva previsto quella mossa, e aveva pensato che il pedone di regina della ragazza bloccasse il suo. Avrebbe fatto meglio a sorvegliare attentamente la piccola scacchiera portatile. Gli uomini continuavano a muoversi, e lo spazio sgombro si allargava: ma via via che avanzavano, l'azione violenta della thermodyne apriva crateri nel terreno, per quanto venisse usata prudentemente, e procedere era più difficile. Il tempo passava rapido.

«Scaccomatto!» Ferrel si scosse e fece per annuire, ma questa volta Sue Brown si corresse. «Mi scusi, ho mosso il re come se fosse la regina. Dottore, vediamo se riusciamo a giocare almeno una partita come si deve».

Non erano ancora arrivati a metà quando si resero conto che era impossibile. Nessuno dei due aveva gli scacchi per la testa, e i pedoni e gli altri pezzi facevano cose tremende e prodigiose, e i cavalli erano capaci di saltare sei caselle invece di eseguire il normale movimento a L. Rinunciarono di comune accordo quando una delle gru perse l'equilibrio precario e si rovesciò in avanti, immergendo il lungo tubo nella massa bollente. Le ruspe corazzate intervennero immediatamente, trascinandola indietro, fino a quando crollò con un tonfo mentre il tubo fondeva, liberando il resto del carico. La gru fece marcia indietro con mezzi propri, e un'altra la sostituì. Il gruista, fortunatamente illeso, uscì barcollando dalla cabina, agitando il braccio corazzato per indicare che non s'era fatto niente. La routine ricominciò, parve protrarsi all'infinito, sebbene i secondi trascorressero fin troppo velocemente, trasformandosi in minuti che minacciavano di diventare ore troppo in fretta.

«Uh!» Sue Brown era rimasta a osservare per un pò; adesso balzò in piedi, portandosi una mano alla bocca. «Dottore, mi è appena venuto in mente. Non servirà a nulla... tutto quanto!»

«Perché?» La ragazza non poteva sapere nulla, ma Ferrel senti tramontare di colpo le sue esili speranze. Aveva i nervi spenti, ma ancora pronti a sussultare alla minima scossa.

«Il gas che stanno producendo è superpesante... affonderà non appena toccherà l'acqua, e si ammucchierà lì! Non verrà trasportato dalla corrente!»

Ovvio, pensò Ferrel. Troppo ovvio. Forse era per quello che gli ingegneri non ci avevano pensato. Fece per alzarsi nell'istante stesso in cui Palmer saliva sul camion, ma il direttore gli posò la mano sulla spalla per farlo restare seduto.

«Calma, Doc, va tutto bene. Uhm. dunque insegnano alle donne un pò di scienza al giorno d'oggi, eh, Mrs. Jenkins... Sue... dottoressa Brown, o come si chiama. Ma non si preoccupi... il vecchio principio del moto browniano terrà in sospensione il colloide, se è abbastanza fine per essere un vero colloide. Lo aspiriamo e lo manteniamo caldo fino a quando arriva all'acqua... e poi si raffredda tanto in fretta che non ha il tempo di agglomerarsi in particelle abbastanza pesanti per affondare. Anche parte della polvere che fluttua nell'aria è più pesante dell'acqua. Se non vi dispiace, resterò qui a tenervi compagnia; gli uomini tengono la situazione sotto controllo, e da quassù posso vedere meglio».

La reazione alla disperazione momentanea ispirò a Ferrel una sicurezza più grande di quanto fosse giustificabile. Si scostò, lasciando un pò di posto al direttore. «Che cosa impedisce all'isotopo di scoppiare. Palmer?»

«Niente! Ha un fiammifero?» Palmer aspirò con forza la sigaretta, cercando di rilassarsi. «È inutile che cerchi d'illuderla, Doc, in questa fase del gioco. È un gioco d'azzardo, e direi che le probabilità sono alla pari. Jenkins è convinto che siano favorevoli al novanta per cento, ma deve pensarla così per forza. Noi speriamo che, trasformando l'isotopo in gas, riducendolo nella forma più fine possibile, e lasciandolo scendere nell'acqua in particelle colloidali, non si formi da nessuna parte una concentrazione sufficiente per farlo esplodere tutto insieme. Il problema è assicurarci di averlo tolto da qui tutto quanto; potrebbe restarne quanto basta per far saltare in aria noi e la città! Almeno, dopo l'ultimo avvicendamento, ha smesso di sprizzare, quindi gli uomini devono temere soltanto le ustioni!»

«Che danni può causare, anche se non scoppiasse tutto insieme?»

«Forse nessuno. Se è possibile fare in modo che bruci lentamente, un milione di tonnellate di dinamite non causa più danni dello stesso quantitativo di legna, ma un candelotto che scoppia di colpo ti ammazza. Perché diavolo Jenkins non mi aveva mai detto che voleva dedicarsi all'ingegneria atomica? Avremmo potuto provvedere noi... e così difficile trovare uomini in gamba!»

Sue Brown si scosse, dimenticando tutti i pericoli, e cominciò a raccontare la storia con grande slancio, mentre Ferrel l'ascoltava con un orecchio solo. Vedeva la chiazza di magma rimpicciolire costantemente, ma il suo orologio continuava a scandire implacabile i minuti, e il tempo era ormai limitato. Prima non s'era accorto di essere rimasto lì seduto tanto a lungo. Ormai tre delle canne delle gru quasi si toccavano, e tutto intorno si estendeva il suolo bruciato, senza tracce del convertitore, dei muri o di altro: il calore liberato dalla thermodyne aveva trasformato tutto in gas, indiscriminatamente.

 

«Palmer!» La radio a ultraonde che il direttore portava al collo gracidò all'improvviso. «Ehi. Palmer, gli aspiratori sono quasi andati, e i tubi sono già crivellati. Abbiamo fatto tutto il possibile per sostituirli, ma l'isotopo li erode troppo in fretta. Non potremo tirare avanti per più di un quarto d'ora».

«Ricevuto, Briggs. Teneteli in funzione meglio che potete». Palmer fece scattare un interruttore e guardò in direzione della ruspa corazzata che stava dietro le gru. «Jenkins, ha sentito?»

«Già. È un miracolo che abbia retto così a lungo. Quanto manca al limite?» La voce del ragazzo era completamente atona: non tradiva speranza o nervosismo, ma solo la stanchezza totale di un uomo esausto.

Palmer controllò e zufolò. «Dodici minuti, secondo la stima mìnima di Hoke. Resta ancora molto?»

«Stiamo bruciando tutto intorno, adesso, cercando di assicurarci che non sia rimasta qualche sacca. Spero che abbiamo aspirato tutto, ma non garantisco niente. È meglio che mandi qui tutto l'I-231 che c'è; lo lanceremo attraverso i tubi per eliminare i depositi interni. Tutti i vecchi cingoli e i pezzi che sono entrati in contatto con l'R sono finiti nel mucchio?»

«Li avete fusi tutti, e le gru non hanno toccato direttamente l'isotopo. E finito un bel mucchio di quattrini, in quella tubatura... convertitore, macchinari, tutto!»

Jenkins borbottò qualcosa che esprimeva la sua preoccupazione. «Adesso comincerò a far ripulire la tubazione. Era tutto assicurato?»

«Sicuro, e profumatamente! Okay, faccia pure, ragazzo mio. E se le interessa può aggiungere il titolo d'ingegnere atomico a quello di dottore in medicina, quando vuole. Sua moglie mi ha riferito tutto, e credo che lei abbia superato l'esame, quindi adesso è un ingegnere atomico, laureato alla National!»

Sue Brown trattenne il respiro, e i suoi occhi brillarono anche attraverso gli occhialoni, ma la voce di Jenkins era secca. «Okay, mi aspettavo che mi avrebbe dato la laurea, se non fossimo saltati in aria. Ma dovrà sentire il dottor Ferrel: sono sotto contratto con lui come medico. Verrò lì fra poco».

Nove dei dodici minuti erano trascorsi quando Jenkins salì sul camion accanto a loro, asciugandosi il sudore. Palmer teneva stretto il cronometro. Altri minuti passarono lentamente, mentre gli ultimi suoni cessavano nello stabilimento e gli uomini attendevano, guardando nella direzione del fiume o la fossa che era stata il numero 4. Jenkins si mosse e borbottò.

«Palmer, adesso ho capito dove ho preso l'idea. Jorgenson non delirava: cercava di ricordarmelo, ma io non l'avevo afferrata, almeno non consciamente. Era un'idea di mio padre, e ne aveva parlato a Jorgenson come estrema risorsa, nell'eventualità che la sostanza che stavamo disintegrando impazzisse. Fu la prima variabile che mio padre tentò. Avevo dodici anni, allora. Lui sosteneva che l'acqua avrebbe spezzato tutte le possibili catene e avrebbe eliminato il pericolo. Ma mio padre non pensava che funzionasse davvero!»

Palmer non distolse gli occhi dal cronometro, ma trattenne il respiro e imprecò. «È proprio il momento migliore per dirmelo!»

«Ma lui non aveva neppure gli isotopi che aveva lei, per riscaldare l'R», rispose in tono blando Jenkins. «Alzi un momento gli occhi da quell'orologio e guardi il fiume».

Quando Ferrel levò lo sguardo, sentì all'improvviso le grida degli uomini. A sud, c'era un'enorme nube di vapore che saliva e si allargava, e incominciava a giungere un sibilo fortissimo. Poi Palmer abbracciò Jenkins, gridando, fino a quando Sue Brown riuscì a staccarlo e a prendere il suo posto.

«Dieci miglia o più di fiume, più le paludi, Doc!» stava urlando Palmer all'orecchio di Ferrel. «Tutta quella dispersione, mentre cuoce lentamente, fino a quando anche l'ultima catena sarà finita, atomo per atomo! La catena theta si è spezzata, e adesso tutto l'isotopo è là, troppo disperso per poter esplodere! Prosciugherà il fiume, ma non succederà altro!»

Doc era ancora stordito: non sapeva come prendere quell'annuncio. Avrebbe voluto buttarsi a terra e piangere, o gridare all'impazzata insieme agli uomini. Invece rimase seduto a guardare la nube. «E così, io perdo il miglior assistente che abbia mai avuto! Jenkins, non la tratterrò: è libero di lavorare con Palmer».

«Hoke vuole che si occupi dell'R... adesso ha la materia prima per la sua bomba!» Palmer batteva le mani lentamente, come un bambino entusiasta che osserva una spalatrice a vapore. «Diamine Doc, scelga il medico che vuole, in attesa che suo figlio si laurei l'anno prossimo. Voleva la possibilità di farlo lavorare qui, e adesso ce l'ha. In questo momento, sono pronto a concederle tutto quello che chiede».

«Allora faccia il possibile per far ricoverare in ospedale i feriti e sistemi tutto con quelli dell'ospedale da campo dietro l'infermeria. E credo che prenderò la dottoressa Brown al posto di Jenkins, e in più voglio il diritto di servirmi di lui in caso di emergenza, fino alla scadenza dell'anno».

«D'accordo!» Palmer batté la mano sulle spalle del ragazzo, interrompendo le sue proteste, mentre Sue Brown gli strizzava l'occhio. «A sua moglie piace lavorare, ragazzo mio. Me lo ha detto lei stessa. E poi, molte donne che lavorano qui lo fanno per tener d'occhio i mariti. Lo fa persino mia moglie. Doc, prenda questi due ragazzi e se ne vada a casa. Io farò altrettanto. Non dovrete tornare fino a quando sarete tutti in perfetta forma... e lei non dia retta a questi due se protestano!»

Doc scese dal camion e si avviò, seguito da Sue Brown e da Jenkins, passando tra gli uomini che gridavano, fuori di sé per il sollievo. Loro tre erano troppo esausti per manifestare entusiasmo, ma lo provavano davvero. Lieto fine! Jenkins e Sue Brown avevano ottenuto quel che volevano, Hoke avrebbe avuto la sua bomba, Palmer aveva la prova che gli stabilimenti atomici potevano restare dov'erano, e lui... beh, suo figlio avrebbe cominciato nel modo migliore, con lui e Blake e Jenkins a guidarlo. La vita non era poi tanto brutta.

Poi si fermò, ridacchiando. «Voi due aspettatemi un momento, eh? Se me ne vado senza dare l'ordine di migliorare la disinfezione delle docce, Blake dirà che sto diventando vecchio e rimbecillito, e non posso permetterlo».

Vecchio? Forse un pò stanco, ma si era sentito stanco altre volte, e con un pò di fortuna gli sarebbe capitato ancora. Non era preoccupato. I suoi nervi erano pronti a reggere per altri vent'anni e cinquanta incidenti, e a quel tempo anche Blake si sarebbe meritato qualche punzecchiatura.

 

Barriera

Barrier

di Anthony Boucher (William Anthony Parker White)

Astounding SF, settembre

 

Anthony Boucher fu uno dei primi uomini del Rinascimento del mondo fantascientifico: aveva ampi interessi e moltissime doti. Era un influente e ottimo recensore nel campo dei gialli (come «H.H. Holmes») e della science fiction (come Boucher e «Holmes») e il suo giallo non fantascientifico, Rocket to the Morgue (1942, Razzo per l'obitorio) conteneva molte allusioni spiritose e appena velate al mondo della fantascienza e dei suoi fan. Sull'ambito del genre si trovava a suo agio soprattutto con la fantasy, sebbene abbia prodotto parecchi racconti fantascientifici eccellenti, come «La cerca di sant'Aquino» (1951) e «Q.U.R.» (1943). Tuttavia, fu come direttore di rivista che Boucher diede il suo contributo più prezioso perché, insieme a J. Francis McComas, fondò e diresse The Magazine of Fantasy and Science Fiction, una delle tre grandi riviste dell'epoca successiva alla Seconda Guerra Mondiale. «Barriera» illustra i suoi vastissimi interessi, nella straordinaria combinazione fra il tema dei viaggi nel tempo e la scienza linguistica.

 

(«Rocket lo the Morgue», come fa notare Marty, era un roman à clef, nel quale il divertimento più grande consisteva nell'indovinare quale personaggio reale era rappresentato da ogni personaggio della vicenda. Nessuno rappresentava me... un punto a sfavore di Tony. Tuttavia, venivo nominato quando Tony raccontava che vari personaggi discutevano diversi argomenti fantascientifici, inclusi «i robot positronici di Asimov»... e scriveva il mio nome erroneamente. Incontrai di persona Tony solo un decennio più tardi, ma ormai l'avevo perdonato da un pezzo, perché gli avevo presentato parecchi racconti, e le sue lettere di rifiuto (quando li rifiutava) erano così gentili che avrei dovuto avere un cuore di pietra per serbargli rancore. - I.A.)

 

La prima difficoltà fu la lingua.

Certo, c'è da aspettarselo, quando fai un salto di cinquecento anni, tuttavia è sconcertante quando, alla tua prima domanda «Che città è questa?» ti senti rispondere così: «Stapper ti sistemeranno. Oppure tu essi Slanduch?»

Fu significativo il fatto che la prima parola che John Brent sentì nello Stato fosse «Stapper». Ma allora Brent non poteva saperlo. Solo alcune ore dopo e cinquant'anni prima avrebbe appreso i dettagli del sistema degli Stapper. Al momento, gli interessava soltanto trovare cibo e plausibilità.

Il suo aspetto era abbastanza plausibile. Seguendo il consiglio di Derringer, aveva viaggiato nudo — «l'unico abbigliamento comune a tutte le epoche,» aveva tuonato lo scienziato; «Che cosa la sbalordirebbe di più, ragazzo, un uomo nudo o un gentiluomo elisabettiano in pompa magna?» — e aveva incominciato la sua vita nel venticinquesimo secolo con uno scasso e il furto di un abbigliamento completo. L'abito di plastica iridescente tagliato in un modello un po' aderente e un po' fluido sembrava un po' troppo prezioso a Brent. ma era comodo e funzionale.

Nessun uomo vivo nel 2473 avrebbe degnato d'una seconda occhiata Brent, vestito del corpo del reato; ma si rese conto immediatamente che il pericolo stava nel suo modo di parlare. Rifletté sulle alternative esposte dallo sconosciuto. Stapper lo avrebbero sistemato a meno che lui fosse Slanduch. Qualunque cosa fossero gli Stapper, le cose che «ti sistemano» sapevano di minaccia. «Slanduch,» rispose.

Lo sconosciuto annuì. «Questo esse giusto,» disse, e Brent si chiese in che guaio era andato a cacciarsi. «Allora, che città è?» ripeté.

«Esse», lo rimproverò lo sconosciuto. «Stapper essono più severi ora dopo Editto di 2470. Prima essavano clementi con qualche irregolarità, ma ora non le tollerano neppure da Slanduch».

«Esso molto dispiaciuto», disse umilmente Brent, prendendo nota che i verbi irregolari, chissà perché, erano pericolosi. «Ma per la terza volta...»

Aveva creduto che il muro accanto a loro fosse solido. Ma ora si accorse che almeno in parte era soltanto un'illusoria cortina simile a vetro, e si apriva per lasciar uscire un uomo alto e vigoroso, seguito da tre aiutanti più bassi. Tutti e tre indossavano vesti simili agli abiti iridescenti di Brent e del suo interlocutore, ma di un bianco candido.

Il capo si fermò e latrò: «George Starvel?»

Brent vide una sorta di muto terrore spuntare sulla faccia dell'uomo, che annuì e tese il polso.

L'individuo in bianco diede un'occhiata a quella che, concluse Brent, doveva essere una targhetta d'identità. «Starvel», annunciò, «lei ave parlato contro Barriera».

Starvel tremò. «Cosmo sapie che non lo avo faciuto».

«Cinque uomi sapiono che lo face».

«Soltanto! Basta!»

La canna apparve nella mano dell'uomo per un unico istante. Brent non vide fiamme o scariche: ma Starvel era steso al suolo e i due aiutanti lo stavano sollevando indifferenti, come se fosse un tronco.

L'uomo si girò verso Brent, che preferì non correre rischi. Fletté le gambe e spiccò un balzo. Si afferrò con la punta delle dita al bordo del balcone sovrastante, e scalciò in faccia all'uomo biancovestito. I muscoli delle braccia e delle spalle si tesero al massimo. Era un problema tenersi aggrappato alla liscia superficie di plastica. Vide, laggiù, che il suo avversario si rialzava barcollando e cercava a tentoni la canna. Alla fine, disperatamente, Brent si issò e scavalcò la balaustrata.

Non ebbe il tempo di ammirare le bellezze dell'ordinato giardino pensile. Ebbe appena quello di notare che c'era una sola porta, e corse in quella direzione. Era aperta e dava in un lungo corridoio. Brent svoltò alla prima delle molte porte identiche. Appartamenti? Comunque... doveva correre il rischio: qualunque cosa ci fosse là dentro, doveva essere sempre meglio di un poliziotto armato che lui aveva appena preso a calci in faccia. Brent aveva sempre preferito i mali sconosciuti... altrimenti non sarebbe mai finito in quello strano mondo. Si avviò verso la porta, e la porta si aprì.

Entrò in fretta in una stanza vuota, e si voltò indietro a guardare l'uscio che si richiudeva da solo. Nella stanza c'erano altre due porte, che si aprirono con eguale premura. Bagno e camera da letto. Niente cucina. (Il suo stomaco protestò). Nessuno. E nessuna uscita dall'appartamento, esclusa la porta da cui era entrato.

S'impose di mettersi seduto a pensare. Poteva capitare qualunque cosa prima che lo Stapper lo raggiungesse, perché non dubitava che l'uomo biancovestito fosse uno Stapper.

Cosa aveva appreso del venticinquesimo secolo in quel breve incontro?

Devi portare una targhetta d'identità. (Promemoria: come procurarsela?) Non devi usare verbi irregolari (e neppure sostantivi irregolari; lo Stapper aveva detto «uomi»). Non dovevi parlare contro Barriera, chiunque o qualunque cosa fosse. Devi guardarti dagli uomini dalle canne che uccidono (domanda: oppure stordiscono soltanto?) Le porte si aprono per mezzo di cellule al selenio (domanda: come si bloccano?) Devi...

La porta si aprì. Non era lo Stapper, ma una donna alta e maestosa che dimostrava a prima vista una sessantina d'anni. Una figura aristocratica... «matrona romana» furono le parole che balenarono nella mente di Brent.

La presenza di uno sconosciuto nel suo appartamento non sembrava sconcertarla affatto. Spalancò le braccia in un gesto di benvenuto. «Esse passato tanto tempo!»

 

«Non voglio un giovane genio scientifico!» aveva ruggito Derringer, quando Brent aveva risposto all'annuncio economico formulato in termini enigmatici. «Quelli li ho già qui in laboratorio. Hanno fatto un lavoro grandioso con la macchina del tempo. Non potrei vivere senza di loro, e non ce n'è uno solo che mi fiderei a mandare lontano da questo secolo. O da questo decennio. Io voglio quattro cose: una conoscenza della storia, perché occorre una base di analogie per capire quello che sta succedendo; abilità linguistica, forza fisica e destrezza, per togliersi dai guai che si presenteranno inevitabilmente; e adattibilità sociale. Anche uno scimpanzé dotato di un'intelligenza subumana saprebbe far funzionare la macchina. Ciò che conta è quello che riuscirà a fare quando sarà arrivato a destinazione».

Era stato facile dimostrare la conoscenza della storia e le doti fisiche. L'abilità linguistica era un po' più complessa; Derringer aveva ideato un'intricata serie di prove che comportavano l'adattamento a cambiamenti fonetici e la capacità di assimilare i principii di una lingua totalmente fittizia inventata per l'occasione. L'adattabilità sociale fu misurata in parte mediante un test attitudinale, ma soprattutto, così pensava Brent, in base alle osservazioni effettuate da Derringer durante le settimane di preparazione, dopo l'assunzione in prova.

Brent aveva superato i quattro esami a vele spiegate. Almeno, Derringer gli aveva rivolto un sogghigno tra la barba nera e aveva borbottato il riluttante «Bravo» che per lui era l'equivalente di un inno di lode. L'agilità fisica gli era già tornata utile, e la sua mente stava già assimilando gli aspetti nuovi della lingua (c'erano alterazioni fonetiche, oltre ai mutamenti grammaticali e lessicali... Brent era rimasto colpito dal fatto che le e e le o non avevano più due suoni ciascuno, lungo e corto, ma uno solo, intermedio); tuttavia la sua adattabilità sociale, in quel momento, si trovava alle prese con un grosso ostacolo.

Che cosa diavolo puoi fare, quando una matrona romana che non hai mai visto, nata cinquecento anni dopo di te, ti chiama per nome ed esclama che ava passato tanto tempo? (Quell'imperfetto regolare di «avere», pensò Brent, gli ricordava un bostoniano con il raffreddore).

Per un momento, Brent si gingillò con l'idea assurda che anche lei fosse una viaggiatrice nel tempo, qualcuna che aveva conosciuto nel 1942. Derringer era sicuro che quello fosse il primo viaggio del genere mai tentato; ma qualcuno che fosse partito più tardi nel ventesimo secolo avrebbe potuto comunque arrivare nel venticinquesimo prima di lui. Brent cercò di mettere alla prova quell'idea.

«Suppongo», azzardò, «che cinquecento anni si possano dire un lungo tempo, relativamente».

La matrona romana aggrottò la fronte. «Non scherzare, John. Cinquant'anni non essono cinquecento. Devo confessare che primi cinque anni parerono talvolta come cinque secoli, ma dopo cinquanta... sentimenti si attenuano».

Devo, naturalmente, era la prima persona singolare di dovere. Tutte le r erano leggermente arrotate. Brent notò tutti questi particolari con un angolo della mente, ma la parte in primo piano pensava alla situazione immediata. Se quella donna lo accettava come un conoscente — non era affatto inverosimile che un suo doppio vagabondasse in quel secolo — probabilmente lo avrebbe protetto dallo Stapper. La sua mente logica protestò: «Ti sembra possibile che il suo doppio abbia il tuo nome?» Ma lui la zitti.

«Ha visto...» cominciò Brent, e poi si riprese. «Ava veduto qualcuno nel corridoio... un uomo vestito di bianco?»

La matrona romana gemette. «Oh, John! Stapper ti cercano ancora? Ma naturalmente. Essi venuto per distruggere Barriera, loro dovono distruggere te».

«Ehi!» Brent aveva visto cosa era successo a un tale che aveva semplicemente «parlato contro Barriera». «Io non ho... non avo diciuto niente contro Barriera».

L'espressione amichevole cominciò a svanire dagli occhi celesti della donna. «E io ti credevo», disse lei, in tono dolente. «Tu ci dicevi di questa seconda Barriera e giuravi di distruggerla. Noi pensavamo che essessi uno di noi. E adesso...»

Nessuna adattabilità sociale può resistere a una donna dignitosa e gentile sul punto di piangere.

«Senta», disse Brent. «Vede, io non sono... in questo momento è inutile cercare di usare i verbi regolari... non sono quello che crede lei. Non l'avevo mai vista prima d'ora. Non potevo. È la prima volta che vengo nel suo tempo».

«Se voli mentire con me, John...»

«Non sto mentendo. E non sono John... almeno, non quello che crede lei. Io sono John Brent, ho ventotto anni e sono nato nel 1914... cinque secoli e mezzo fa».

Secondo tutti i romanzi e i racconti sui viaggi nel tempo che Brent aveva letto, quel tipo di affermazione faceva sempre l'effetto di una bomba. C'è un silenzio di morte, tutti si arrovellano e l'autore sottolinea l'effetto lasciando una riga in bianco.

Ma la matrona romana non si scompose. Il silenzio e il rovello furono tutti da parte di Brent, un attimo dopo, quando lei disse, con dolorosa pazienza: «Lo sapio, John, lo sapio».

«Questo Derringer non l'aveva messo, nel manuale delle regole», borbottò Brent. «Signora, per così dire, lei mi lascia di stucco. E adesso cosa deve fare il protagonista?»

«Tu essi stesso John!» Lei sorrise. «Non esso mai riuscita a capirti».

«Abbiamo molto in comune», commentò Brent.

«E poiché non riuscio a capirti, sapio che essi tu». Lei continuava a sorridere. Era un sorriso strano; Brent non sapeva identificarne il significato. Non ci riuscì fino a quando la donna si tese verso di lui e gli sfiorò dolcemente il braccio.

Brent aveva bisogno di amici. Quali che fossero le assurde illusioni di quella donna, sembrava disposta ad aiutarlo. Tuttavia, non seppe trattenersi dal tirarsi indietro quando riconobbe la tenera espressione d'amore su quel vecchio volto dignitoso.

La donna parve rendersi conto di quel rifiuto. Per un momento. Brent temette che andasse su tutte le furie. Poi lei si rilassò e con un altro sorriso, perplesso ma rassegnato, aggiunse: «Questo esse parte di non comprenderti, credo. Cosmo sapie che essi così giovane, John, ancora così giovane...»

Doveva essere stata una ragazza molto bella, pensò Brent, con improvviso stupore.

La porta si aprì. L'uomo che entrò era alto come lo Stapper, ma portava le vesti iridescenti da borghese. La barba lunga sembrava aver acquisito qualcosa dei loro riflessi d'arcobaleno; era prevalentemente rossa, ma con baluginii bruni e neri e bianchi. I capelli erano ingrigiti. Poteva avere qualunque età, dai quarantacinque anni ai settanta ben portati.

«Aviamo un ospite, sorella?» chiese educatamente.

La matrona romana fece un gesto disperato. «Non lo riconosci? E tu, John, non conosci Stephen?»

Stephen si batté la mano sulla coscia e latrò... un suono che sembrava rappresentare una risata di piacere. «Cosmo!» gridò. «John Brent! Te l'avevo detto, Martha. Sapevo che non ci avrebbe delusi».

«Stephen!» esclamò lei, scandalizzata.

«Al diavolo le irregolarità! Non posso salutare John con le vecchie parole che venono... no, per il Cosmo, che vengono dallo stesso passato dal quale è venuto lui? Ecco, John... non parlo bene l'antica lingua? Uso persino articolo... scusami, l'articolo».

Il taccuino mentale automatico di Brent registrò quel che già aveva sospettato: che un articolo era tabù quanto un verbo irregolare. Ma intorno a quel sistema autonomo di annotazione turbinava la confusione più completa. Poteva darsi che per caso si fosse imbattuto in una pazza. Ma due pazzi in successione con le stesse identiche illusioni erano troppi. E Stephen sapeva che lui veniva dal passato.

«Temo», disse semplicemente, «che questo sia troppo per me. Mettiamoci seduti e beviamo qualcosa e discutiamone».

Stephen sorrise. «Ricordi il nostro vincolo, eh? E non lo troverai in molti posti, in questo Stato. Anche meno di prima». Si avvicinò a uno stipo e tornò portando tre bicchieri di liquido incolore.

Brent prese prontamente il suo e lo trangugiò. Un po' di liquore poteva disperdere la confusione. Forse.

Il liquore era andato giù, tranquillo e insapore. Adesso, però, un diavoletto maligno cominciò a staccargli gli atomi dello stomaco, lanciandoli in un torrente di particelle che gli risalivano la gola e gli arrivavano nel cervello, dove facevano deflagrare una carica d'esplosivo di potenza senza precedenti. Brent si lasciò sfuggire uno strillo strozzato.

Stephen latrò di nuovo. «Buon vincolo, eh, John»?

Brent riuscì a mettere a fuoco l'immagine del suo ospite attraverso la lente deformante delle lacrime. «Sicuro», fece debolmente, annuendo. «Ottimo. E adesso lasci che cerchi di spiegare...»

La donna guardò tristemente il fratello. «Lui ci rinnega, Stephen. Insiste a dicere che non ci ava mai veduti prima d'ora. Ave dimenticato tutto quello che aveva giurato a proposito di Barriera».

Una strana espressione perplessa apparve negli occhi castani di Stephen. «Esse vero, John? Non ci avi mai veduti prima in tutta tua vita?»

«Ma Stephen, tu sapi...»

«Taci, Martha. Avo diciuto in sua vita. Esse vero, John?»

«Esse vero. Dio sa se esse vero. Non ho mai visto... non avo mai veduto nessuno di voi due in vita mia».

«Ma, Stephen...»

«Ora comprendo, Martha. Ricordi quando ci diciò di Barriera e di sua decisione?»

«Poto dimenticarlo?».

«Come sapeva di Barriera? Dicimelo».

«Non sapio», confessò Martha. «Mi sono chieduta...»

«Sapeva di Barriera perché ora esse qui. Mi diciò quel che doviamo dicergli ora».

«Allora, per amor del cielo», gemette Brent, «ditemelo».

«Scuse, John. Mia sorella non esse molto pronta ad afferrare fonte di queste distorsioni temporali. Un altro po' di vincolo?» Stephen aveva preso in mano la bottiglia: poi si fermò di colpo, la rimise nello stipo e mormorò: «Anda in camera da letto».

Brent obbedi. Non era il momento di dar prova di spirito d'iniziativa. E appena la porta della camera da letto si chiuse dietro di lui, sentì la voce dello Stapper. (Il taccuino mentale annotò che il caseggiato doveva essere molto grande, se c'era voluto tanto tempo per arrivare fin lì).

«No», stava dicendo Stephen. «Mia sorella e io essiarno qui da mezz'ora. Non aviamo veduto nessuno».

«Stato vi ringrazia», borbottò lo Stapper, così distrattamente che doveva trattarsi senza dubbio di una formula ufficiale. I passi si allontanarono. Poi si fermarono, e ci fu il rumore di qualcuno che fiutava energicamente.

«Buon Dio», pensò Brent, «hanno incrociato i tori con i segugi?»

«Vincolo», annunciò lo Stapper.

«Oh!» esclamò la voce di Martha. «Chi esse venuto qui oggi, Stephen?»

«Io esso omeopata», disse lo Stapper. «Simile cura simile. Un po' di vincolo mi facerebbe dimenticare che avo sentito odore».

Vi fu un latrato di Stephen, poi un tintinnio di bicchieri. Nessuno dei due fece versi strani nell'ingollare il liquore. Quelli, signore, erano veri uomini. (Promemoria: scoprire perché quell'incredibile torcibudella veniva chiamato proprio Vincolo).

«Stato vi ringrazia», disse lo Stapper, e rise. «Conoscete George Starvel, vero?»

Un «Sì» lievemente esitante di Stephen.

«Quando lo rivederete ancora, credo scoprirete che ave cambiato idea. Su molte cose».

Vi fu un silenzio. Poi Stephen apri la porta della camera da letto e accennò a Brent di tornare in soggiorno. Gli porse un bicchiere di vincolo e disse: «Esserò breve».

Brent. che adesso sapeva che roba era quel liquore, lo centellinò, e si accorse che lo riscaldava piacevolmente, mentre assimilava i fatti nuovi.

 

A metà del ventiquattresimo secolo, apprese, la civiltà aveva raggiunto un elevato livello di comodità, di soddisfazione, di successi... e di stagnazione. La combinazione tra l'energia atomica e la rivoluzionaria formulazione, da parte di De Bainville, dei principii del lavoro e della finanza sembrava aver risolto tutti i problemi economici. Lo straordinario sviluppo dei materiali sintetici aveva distrutto la necessità impellente delle materie prime e delle colonie e aveva abolito la distinzione tra le nazioni ricche e quelle povere. Il Compendium di Schwarzwalder aveva realizzato il sogno degli antichi enciclopedisti... la sistematizzazione completa dello scibile umano. Farthing aveva regolarizzato la lingua inglese, un'impresa eguagliata dall'opera di Zinsmeister, Timofeov e Tamayo y Sàrate nelle rispettive lingue. (Erano quelle quattro lingue che adesso dominavano la terra. Il francese e l'italiano erano diventati dialetti corrotti del tedesco e le lingue orientali occupavano nei loro rispettivi paesi la stessa posizione che avevano avuto il greco e il latino nell'Europa del secolo decimonono, ed erano condannate a precipitare presto nel totale oblio che aveva inghiottito quelle lingue classiche nel secolo ventunesimo).

Non c'era più nient'altro da realizzare. Si sapeva tutto, si era fatto tutto. La Legge dell'Accelerazione Spaziale di Nakamura aveva dimostrato che i viaggi interplanetari erano impossibili per l'eternità, La Legge del Metabolismo Temporale di Charnwood aveva liquidato allo stesso modo i viaggi nel tempo. E il Compendium di Schwarzwalder, che tutti ammiravano e che nessuno aveva letto, costituiva un quadro così impeccabile e soddisfacente della conoscenza che era evidentemente impossibile pensare di poter scoprire qualcosa di nuovo.

Fu allora che Dyce-Farnsworth proclamò la Stasi di Cosmo. Membro della Chiesa Anglo-Fisica, che era il prodotto della lunga contemplazione degli aspetti metafisici della scienza da parte dei fisici inglesi, apparve come il profeta necessario all'autogratificazione dell'epoca.

Venne curiosamente aiutato dalle leggi della regolarità di Farthing. Farthing aveva dimostrato che l'articolo, determinativo e indeterminativo, era assolutamente superfluo — non c'erano forse state lingue dominanti, come il latino nei primi secoli e il russo nel ventunesimo, che non ne avevano nessun bisogno? — e semanticamente fuorviante. «Articolo», aveva affermato nel suo vastissimo e definitivo studio Questo esse linguaggio, «esse primo corruttore di pensiero umano».

E così l'affermazione tanto amata nel ventesimo secolo dagli scienziati con mentalità metafisica e dai religiosi con mentalità scientifica, «Dio è il cosmo», con Dyce-Famsworth divenne «Dio esse cosmo», e quindi, facilmente e inevitabilmente, «Dio esse Cosmo», in modo che l'assoluta impersonalità scientifica divenne una personificazione della Scienza. Cosmo sostituì Jehovah, Baal e Odino.

Cosmo non amava l'uomo e le sue opere, bensì la Stasi. L'uomo era tollerato da Cosmo perché raggiungesse la Stasi. Tutti i millenni degli sforzi umani avevano avuto come fine quel momento supremo in cui tutto era realizzato, tutto era conosciuto e tutto era perfetto. Quindi quella Stasi suprema doveva venire mantenuta a ogni costo. Poiché il Presente era perfetto, ogni modifica doveva essere necessariamente imperfetta e quindi vietata.

Da questa teoria, logicamente, si era evoluto lo Stato, il cui dovere era mantenere la perfetta Stasi di Cosmo. Nessun governo totalitario s'era mai impegnato altrettanto energicamente per eliminare dubbi e dissensi. Nessun fanatismo religioso aveva mai giudicato l'eresia tanto riprovevole e meritevole di distruzione. La Stasi doveva essere mantenuta.

Ironicamente, fu proprio il vecchio Dyce-Farnsworth che, in un momento d'intuizione quasi mistica, scoprì la pecca della Legge del Metabolismo Temporale di Charnwood. E subito si rese conto di ciò che si doveva fare.

Poiché la Stasi di Cosmo non praticava i viaggi nel tempo, tutte le civiltà precedenti o successive che li praticavano dovevano essere imperfette. I loro emissari avrebbero seminato l'imperfezione. Si doveva creare una Barriera.

Il mistico non si spinse oltre questo enunciato, ma gli scienziati dello Stato tradussero in pratica la sua richiesta. «Non chiedere come in questo momento», soggiunse Stephen. «Io non esso capace di spiegare. Ma imparerai». La prima Barriera era stata un fallimento. Si era autodistrutta e non aveva portato risultati apparenti. Ma adesso, dopo cinquant'anni, la paura dei viaggi nel tempo era cresciuta. L'idea originaria dell'imperfezione degli emissari era andata perduta. Adesso era il viaggio nel tempo in se stesso che era imperfetto e malefico. Ogni azione intrapresa per bloccarlo sarebbe stata una lode a Cosmo. E si stava erigendo la nuova Barriera.

«Ma John sapie tutto questo», protestava Martha di tanto in tanto, e Stephen scrollava mestamente la testa e sorrideva a Brent con aria di comprensione.

«Non ne credo una parola», disse alla fine Brent. «Oh, il quadro storico è esatto, mi fido di te. E funziona perfettamente per analogia. Prendi il fanatismo religioso del secolo decimosesto, la boriosa autogratificazione scientifica del decimonono, la dominazione del potere del ventesimo... metti tutto insieme e ottieni il vostro Stato. Ma la Barriera è impossibile. Non può funzionare».

«Charnwood sostenette che non vi esseva principio in base al quale viaggio nel tempo pote funzionare. E tu essi qui».

«Ma è diverso», disse vagamente Brent. «Comunque, questo proposito di distruggere la Barriera è assurdo. Non ce n'è bisogno».

«In verità ci esse bisogno, John. Per due ragioni: una, perché potiamo ricavare benefici da sapienza di viaggiatori venuti da altre epoche; seconda, perché azione positiva di distruggere questa Barriera, ora adorata quasi con feticismo, esserà arma forte con cui potiamo colpire Stato. Perché vi essono quelli che sperano di salvare umanità da questo fanatico autocompiacimento in cui esse caduta razza. George Starvel esseva uno di noi», aggiunse tristemente Stephen.

«Ho visto Starvel... Ma non è questo che voglio dire. Non è necessario perché la Barriera non funziona».

«Ma tu ci avevi diciuto che Barriera doveva essere distruggiuta», protestò Martha. «Che funzionava e che noi...»

«Taci», disse gentilmente Stephen. «John, ti fidi di noi abbastanza per mostrarci tua macchina? Credo che allora poterò chiarire meglio idee a Martha».

«Se mi terrete alla larga degli Stapper».

«Questo non potiamo garantire... per ora. Ma giorno venirà in cui umanità poterà dimenticare Stapper e Stato, lo giuro». C'era un'espressione di austero e generoso coraggio nel viso di Stephen, quando brindò a quella promessa.

 

«Ho avuto fortuna, quando sono atterrato qui», spiegò John Brent lungo la strada. «Derringer ha attrezzato la macchina per il solo moto temporale. Mi ha spiegato che avrei corso un rischio; potevo scoprire che la costa era sprofondata e allora sarei finito sott'acqua, o Dio sa che altro. Ma non aveva ancora calcolato gli assestamenti sincronizzati per il moto tempo-aziendale, e voleva cominciare gli esperimenti. Ho corso il rischio, e mi è andata bene. Dove c'era il laboratorio di Derringer adesso c'è un magazzino deserto. È pieno di polvere e non c'è traccia di presenza umana».

Gli occhi di Stephen si illuminarono, mentre si avvicinavano alla lunga, bassa costruzione di mattoni opachi. «Ricordi, Martha?»

Martha aggrottò la fronte e annuì.

Una luce fioca filtrava dalle pareti e rivelava i contorni scheletrici della macchina. Brent accese sul quadro una lampada che irradiava un debole chiarore.

«Non c'è molto da vedere, neppure con una luce forte», spiegò. «Solo i due sedili — Derringer contava di spedire due esploratori, quando l'ha costruita, ma poi ha pensato che un uomo solo, responsabile soltanto nei confronti di se stesso, sarebbe andato meglio — e questo quadro. Gli strumenti sono automatici... si adattano alla presenza di un'altra macchina più avanti di te nella linea temporale. L'unico comando di cui deve occuparsi l'operatore è questo». E indicò il doppio quadrante fermo sul 2473.